Il dialogo interreligioso vissuto negli incontri semplici della quotidianità, raccontato dall’esperienza dei Missionari della Consolata in Corea del Sud
C’è un monaco buddista che p. Diego e io abbiamo soprannominato Tto Kkattè. Alla faccia dello stereotipo che abbiamo del monaco silenzioso e contemplativo, questo vuol parlare sempre lui, e per lo più vuole insegnare, cosa che abbiamo riscontrato essere abbastanza comune tra i monaci. E di solito le sue ultime parole prima di finire i nostri incontri sono: “Io e questo tavolo siamo la stessa cosa; io e questo vaso di fiori siamo lo stesso” cioè: “Tto Kkattè” (uguale, lo stesso), da qui il soprannome. Noi ci riteniamo un po’ diversi dal tavolo, ma perlomeno riusciamo a cogliere il suo punto di vista.
Il monaco Tong Hwa è un po’ duro d’orecchi, ma una volta che mancò ai nostri incontri ci disse che quando stava con noi si sentiva come dopo mezza giornata di meditazione Zen. Quando lo abbiamo visitato al suo tempietto per la festa del Budda si lamentava che i giovani non vanno più al tempio e che non ci sono più vocazioni a monaco! Suona nuovo?
Il fiore all’occhiello del nostro gruppo è la monaca Min del Buddismo Won, una nuova religione nata in Corea poco più di cento anni fa. Capelli nerissimi divisi a metà e raccolti in uno chiffon dietro la nuca, con un abito coreano tradizionale tutto nero con dei bordini bianchi sul collo, porta bene i suoi 60 e più anni.
È molto aperta e intelligente, conosce e ama la Chiesa Cattolica e spesso ci aiuta a capire il senso di cosa dicono gli altri monaci, diciamo che ci fa da mediatrice culturale. Una volta l’abbiamo invitata a pranzo a Natale e le ho preparato una specie di insalata russa decorata a forma di pesce: ne è rimasta entusiasta tanto da mandarne una foto a tutti i suoi amici.
Un anno ci disse che nell’asilo che le sue monache gestiscono mancava Babbo Natale per la festa dei bambini. Ovviamente si offrì ad aiutarle quello che più somiglia al “Nonno Santa”, come lo chiamano qui, cioè il sottoscritto. Grande successo tra grandi e piccini! Il giorno seguente ci chiamò la radio dei buddisti Won per un’intervista e per ringraziare perché noi, preti cattolici, volevano loro così bene.

C’è poi un’altra monaca, questa volta buddista, col vestito grigio e la testa rasata. Io l’ho soprannominata Calamity Jane perché è un po’ sui generis. Con l’istinto dell’affarista, gestiva un bar dove dava lavoro e rifugio a ragazze madri, iniziativa più unica che rara tra i monaci buddisti. Partecipa agli incontri interreligiosi anche lei e spesso critica i monaci per il trattamento verso le monache donne (ehi, la chiesa cattolica è un paradiso in confronto!).
Questo è quello che noi chiamiamo il dialogo della vita, anche se vorremmo ampliarlo un po’ di più. C’è anche il dialogo ufficiale, con scambi di cortesie tra i vari capi religiosi, come quando per la festa del Budda andiamo col Vescovo a incontrare il monaco capo del Kwan Su Sa.
Voi potreste chiedervi: “Vale la pena tutto questo?” Sapete, quando non si conosce qualcuno, la prima reazione è la diffidenza reciproca e anche la paura; il diverso da me, cerco di evitarlo. Noi invece creiamo rapporti, fiducia e conoscenza reciproca; non è poca cosa, di questi tempi.
“Ma è evangelizzazione?”, potreste obiettare. Certamente Gesù ha detto di andare e battezzare tutti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ma potremmo anche tradurre questo invio con: “Andate e immergete tutti nell’amore della Trinità!”.
Ci sono molte persone che, non per colpa o responsabilità, non sono in grado di riconoscere subito Gesù come Dio, a volte a causa incrostazioni culturali lunghe secoli, a volte per i peccati stessi di noi cristiani, a volte semplicemente perché non raggiunti dal messaggio. L’amore, però, arriva anche laddove non giungono le parole: il cristiano annuncia Cristo tutte le volte che ama.

San Cipriano nel III secolo usò la famosa frase Extra Ecclesiam nulla salus, fuori della Chiesa non c’è salvezza, e anche Chi non ha la Chiesa come madre non può avere Dio come Padre. Tutto verissimo ma deve essere contestualizzato. Cipriano si rivolgeva a quelli che dopo essere stati battezzati nella Chiesa, la lasciavano. Includere in questo numero coloro che, non per negligenza, non la conoscono, non è il sentire della Chiesa. È risaputa la condanna del Magistero a una interpretazione troppo rigida ed esclusiva di questa frase da parte di un prete della diocesi di Boston nel 1949, che portò alla sua scomunica.
Nel corso della millenaria storia della chiesa, l’azione missionaria dei cristiani si è espressa in molti modi, diversi e talvolta opposti fra loro: è fondamentale contestualizzare i fatti nel loro tempo e ambiente altrimenti si corre il rischio di leggere (e giudicare) il passato con i criteri del presente.
Invece di sottolineare i cambi teologici ‘rivoluzionari’, vorrei guardare alla continuità e all’evoluzione della stessa forza missionaria che il Vangelo ha suscitato in ogni epoca. La missione è, in tutte le sue forme, semplicemente irradiazione della vita della chiesa, Corpo di Cristo. Sicuramente è annuncio chiaro ed esplicito, come fece Gesù.
Ma è anche carità: pensate all’impatto di Madre Teresa sul mondo asiatico e induista. Il fu Monsignor Bortolaso, vescovo emerito di Aleppo in Siria, mi disse che un Imam gli aveva confessato che guardando le Piccole Sorelle di Gesù prendersi cura dei disabili aveva cominciato a capire l’essenza del cristianesimo. E prima che lasciasse la sua sede episcopale di Aleppo, il Gran Mufti della città gli aveva organizzato una festa speciale con tutti i rappresentanti dei capi religiosi musulmani e cristiani, in ringraziamento per le relazioni positive che lui aveva saputo creare con tutti.
È missione l’amicizia ed è missione l’impegno per la comunione; anche la cultura e l’educazione sono missione. Pensiamo alle tante congregazioni cristiane dedite alla scuola, spesso in situazione di minoranza, come in tanti paesi d’Oriente. E che dire dell’arte? Ancora oggi quanti dipinti, libri, musiche e costruzioni annunciano il Vangelo!

Nei suoi primi passi la Chiesa dovette confrontarsi per lo più con religioni animistiche, pagane. Fu solo dopo il 1500 che iniziò a esporsi alle grandi religioni organizzate del continente Asiatico, trovandosi di fronte alla necessità di entrare in dialogo profondo con culture e fedi.
Nel 500 o 600 un monaco irlandese in Germania poteva piazzarsi all’entrata di un villaggio, davanti all’albero sacro della comunità, tagliarlo con la scure e dire alla gente: “Vedete che non capita niente, dove sono i vostri spiriti? Credete al vero Dio!”. 1000 anni dopo De Nobilis in India e Matteo Ricci in Cina non hanno più potuto fare così. Fu necessario usare un linguaggio comprensibile a tutti per poter avere accesso al loro mondo e alla loro fiducia; i Gesuiti usarono matematica e astronomia per arrivare al cuore dei cinesi!
I re Magi non erano Ebrei e non conoscevano la Bibbia: Dio parlò loro il linguaggio dell’astrologia. La Madonna a Guadalupe offrì un dipinto poco significativo per gli spagnoli ma pieno di messaggi per chi conosceva la cultura indigena messicana. Il tentativo di san Francesco di convertire il sultano forse non ebbe l’effetto sperato ma da quel momento, e per molti secoli, solo ai Francescani, tra i cattolici, fu permesso di stare in Terra Santa.
Che dire, in conclusione? Immaginiamoci un paesaggio di montagna: ci sono i prati, dove il Signore fa crescere fiori in quantità, ci sono fessure tra i sassi e i semi caduti lì, che con fatica si fanno spazio e fecondano il terreno per germogli e erbe che verranno. E poi ci sono le nude rocce: qui solo muschi e licheni attecchiscono, ma con la pazienza dei secoli sgretolano la roccia e preparano una primavera lontana. Così è la missione. Una varietà di impegni e risultati multiformi. Tutto nelle mani di Dio.
p. Gian Paolo Lamberto, IMC
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Andare alle Genti