Qualche tempo fa, a Verona, durante un Convegno dedicato all’Africa e ai suoi valori, ho avuto l’opportunità di ascoltare Jean-Pierre Sourou Piessou, originario del Togo, laureato in filosofia e teologia, presso l’Università Pontificia Lateranense di Roma. Jean-Pierre è mediatore culturale e operatore a Verona, dove abita, dell’ANOLF (Associazione Nazionale Oltre Le Frontiere), che non ha scopi di lucro, si fonda sul protagonismo degli immigrati di varie etnie ed ha come scopo la crescita dell’amicizia e della fratellanza tra i popoli, nello spirito della Costituzione italiana.

Dall’intervento di Jean-Pierre appresi che nella sua lingua la parola “straniero” non esiste, infatti,  precisava: “l’Altro, colui che appartiene ad un’altra cultura o etnia, dai miei connazionali viene chiamato: Amèdzro. Amè  significa  persona, essere umano, mentre  Dzro indica chi è desiderato, atteso, aspettato, non un nemico da combattere. Ancora, il termine Amèdzro è una delle prime parole, che i genitori insegnano ai figli sottolineando che l’ospite, il visitatore è “sacro”, una persona a cui dedicare tempo, attenzioni e non semplicemente qualcuno di passaggio, da accogliere in modo sbrigativo senza cura né affetto. Al visitatore si offre tutto quello che si ha e si è, perché l’ospitalità è la misura della bontà, dell’educazione e della gentilezza.”

Le parole di Jean-Pierre, oltre a stupirmi, mi riportarono indietro nel tempo, facendo riaffiorare alla memoria alcune scene della mia infanzia.

Siamo negli anni ’50, la mia famiglia, in un paese della Brianza, Lombardia,  aveva un negozio di frutta e verdura con annesso un piccolo bar dove durante l’inverno si serviva: caffè espresso, cioccolata, panna montata e, in estate, si producevano gelati artigianali. In famiglia, oltre ai miei genitori, un fratello e una sorella, c’era anche “nonna Francesca”.

La nonna, solitamente, sedeva nella cucina, situata nel retro del negozio e, mentre sferruzzava o sgranava il Rosario, dalla porta a vetri, che immetteva nel negozio gettava un’occhiata ai clienti che entravano ed uscivano.

Sedevo spesso e volentieri sulla ginocchia di nonna Francesca, mi piaceva giocherellare con la sua corona del Rosario, osservare la gente che veniva e andava e, di tanto in tanto, rincorrere il gatto di casa.

Un evento, che accadeva tutti gli anni, nei mesi che vanno da agosto a ottobre e che mi incuriosiva, era l’incontro di nonna Francesca con “Zizì”, un’anziana Rom, che in paese, comunemente chiamavano: “la zingara”. In quel periodo dell’anno, ogni settimana, puntualmente, “Zizì arrivava accompagnata da una giovane Rom e si dirigeva direttamente in cucina, prima di sedersi accanto alla nonna la abbracciava e le chiedeva come stava. Nei giorni più freddi, la nonna e “Zizì” si accomodavano sulle panche, incastrate sotto il grande camino, che riscaldava la cucina e continuavano a parlare fitto, fitto, si stringevano le mani, si davano colpetti sulle spalle, sorridevano e qualche volta piangevano insieme

Osservavo attentamente quelle due donne attempate che parlavano sottovoce. Mi incuriosivano i loro vestiti, quelli indossati dalla nonna erano semplici, dai colori scuri e arricciati in vita; “Zizì”, invece, portava indumenti tradizionali arricchiti da colorati disegni di fiori e frutta e sulle spalle uno scialle dalla lunga frangia. Anche l’acconciatura dei capelli delle due donne era diversa. Nonna Francesca aveva i capelli bianchi raccolti in uno scignon, sulla nuca, mentre i capelli neri, con qualche filo d’argento, di “Zizì”, formavano una lunga treccia che, raggruppata sul lato destro del volto, scendeva fino alla vita.

All’ora di pranzo, “Zizì” sedeva a tavola con noi poi, nel pomeriggio, quando la giovane Rom veniva a riprenderla, ringraziava nonna Francesca, benediceva tutti e se ne andava con il sorriso sulle labbra.

Alla fine dell’estate del 1953, “Zizì” arrivò e, come al solito, entrò nella cucina, ma quando non trovò più nonna Francesca, che era morta nel mese di agosto, scoppiò in un pianto inconsolabile: aveva perso un’amica e una confidente.

L’anno seguente la giovane Rom arrivò, ma senza “Zizì”, il dolore per la perdita di Francesca era stato troppo grande e anche lei se n’era andata.

Nonna Francesca, anziana e ormai sedentaria, “Zizì”, itinerante, sempre in viaggio. Una brianzola e una Rom. Donne di culture diverse, ma capaci di dialogare, condividere le loro esperienze intrecciate di gioie e di dolori comuni. Donne capaci di accogliersi nella ferialità della vita, di godere della reciprocità e, al contempo, della diversità.

Oggi, nella nostra società liquida e individualista, l’accoglienza è ancora indispensabile, vitale, se non si vuole asfissiare, o annegare, nel classico bicchiere d’acqua! Infatti, l’accoglienza è lo zoccolo duro della vita, il campo dove seminare il futuro, un orizzonte aperto a 360 gradi, il fondamento su cui costruire rapporti, alla pari, intessuti di dialogo, collaborazione, pace, sicurezza e godere dell’amicizia semplice e schietta, come per molti anni hanno fatto “nonna Francesca” e “Zizì”.

 

suor Maria Luisa Casiraghi

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