Nella Bibbia, come nella vita, ci sono momenti e situazioni che si presentano come più ostici, faticosi, ma che poi spesso, se ben dispiegati, profumano l’ambiente intorno con la loro fragranza e la loro forza nutriente. È probabilmente quello che si potrebbe dire del primo capitolo della prima lettera di Giovanni.

Va bene, la chiamiamo così ma in realtà, a essere sinceri, non siamo sicuri su chi l’abbia scritta, né per chi o in quale occasione, ma per fortuna non abbiamo bisogno di tutto ciò per apprezzarne lo spirito profondo e caloroso.

Una solenne introduzione

Tutti noi conosciamo canzoni e film o romanzi che ci sono rimasti impressi per le loro introduzioni, che risentiamo o rileggiamo solo fino a un certo punto, perché a essere spettacolare e memorabile è proprio come esordiscono.

Lo stesso potremmo dire di questa lettera, che anche in traduzione non perde nulla della sua forza.

«Ciò che era fin da principio» (1Gv 1,1) ci porta immediatamente a grandissimi temi, alla creazione, all’origine del mondo, della nostra vita, del senso. Non sappiamo ancora dove ci porterà questa frase, questa lettera, questo discorso, ma già intuiamo che non saranno pettegolezzi superficiali.

Si parla di ciò che «noi abbiamo udito», veduto, toccato… Sembrava si parlasse di principi di fondo dell’universo, ma subito le cose si fanno concrete, corporee… Nel nostro modo di pensare, ci sembrerebbe che i due aspetti siano in contraddizione. In mezzo, però, si parla anche del “contemplare”, che ci pare qualcosa di più spirituale… Intuiamo allora, ancora confusamente, che di grandi principi si parla, sì, ma senza che questi si trasformino in qualcosa di etereo. E l’unione di concretezza e grandi principi, senza dubbio, diventa qualcosa di potente.

Quindi, senza che la frase ci lasci ancora intuire verso dove stiamo andando, si arriva a parlare «del verbo della vita». “Verbo” è un termine che in greco significa tantissime cose, vuol dire “parola”, ma anche “logica”, “senso” e altro ancora… È la stessa parola che troviamo all’inizio del vangelo di Giovanni (Gv 1,1), di nuovo colto come «in principio». E “vita” è vocabolo amplissimo…

Stiamo parlando, si direbbe, del senso della vita, della ragione ultima del nostro essere al mondo. E l’autore ha appena affermato che questo senso della vita è stato visto, udito, toccato… Ecco perché, mentre ancora la frase che stiamo leggendo non è arrivata a una meta, il discorso si interrompe, e riprende in una parentesi l’assurdo che potrebbe essere incredibile: «perché la vita si è manifestata» (1Gv 1,2), affermazione poderosa e solenne. Non è “semplicemente” Dio ad essersi manifestato, lui che potrebbe anche sembrarci qualcosa di estraneo, di esterno a noi, ma la vita stessa, ciò che desideriamo, quella che ci promette apparentemente molto di più di quanto riesca a mantenere… Che si stia parlando di Gesù, un cristiano lo capisce o intuisce abbastanza in fretta, e d’altronde viene qui chiarito con «era presso il Padre», ma che lui venga presentato direttamente come “la vita” (sulla linea di Gv 11,25; 14,6) può anche spiazzarci e provocarci. Gesù come la risposta alle nostre domande, speranze, desideri… e come risposta che è vita, che viene incontro a ciò che chiediamo, speriamo e desideriamo. Il centro del discorso non è Dio, ma noi e il nostro voler vivere. Colto nella sua concretezza materiale ma allargato alle dimensioni dell’universo intero.

Foto di Kerie da Pixels

Lo scopo del discorso

A questo punto l’autore torna da capo, e sa benissimo che non può permettersi di finire la frase come se niente fosse, in quanto ci siamo persi, per la lunga sua intricata frase e per la sorpresa. E allora ricomincia: dice di annunciare a chi legge «quello che abbiamo veduto e udito», ossia non semplicemente una riflessione astratta, ma la vita vissuta piena.

E a questo annuncio (finalmente la frase è arrivata alla fine!) è aggiunto anche lo scopo del messaggio, che è la comunione, l’intima amicizia, il legame profondo tra chi annuncia e chi ascolta, e di entrambi con il Padre; e con Gesù.

Quella vita proclamata, toccata, udita, è vita di relazione, di comunione. Dove la differenza tra uomo e Dio si annulla, perché Dio vive in sé, tra Padre e Figlio, ciò che vuole che gli esseri umani vivano tra loro e con lui. Al di là di tante formule da catechismo, Dio non vuole essere onorato o servito, ma semplicemente vivere in amicizia. Esattamente ciò che desideriamo anche noi, una volta che ci depuriamo da tutti i nostri desideri che, se ci pensiamo, ci suonano secondari ed esteriori. Possiamo dire di volere ricchezza e potere, ma poi sappiamo benissimo che se quei beni significassero di essere soli… non ci interesserebbero più. Mentre capiamo benissimo la ricchezza di umanità autentica, viva, che può esserci tra persone anche in miseria e in malattia, ma che vivono relazioni profonde e vere di amicizia e amore.

Come se Dio ci promettesse e richiamasse a ciò che, se ci pensiamo, già noi avevamo colto come cuore della nostra esistenza. E, nello stesso tempo, ci indica ancora di più che se vogliamo vivere bene, lì dobbiamo guardare, non a potere o successo o ricchezza o salute o altro di simile, ma alle relazioni umane.

Lo scopo ancora più definitivo del messaggio, infatti, è una gioia piena di tutti (v. 4).

Le conseguenze

Quello che segue sono quasi conseguenze.

«Dio è luce» (1Gv 1,5), è quella forza che ci permette di vedere, conoscere, decidere, camminare, operare e vivere le nostre scelte. La tenebra ci obbliga a muoverci a tentoni sempre negli stessi luoghi, nella paura di ciò che ci potrebbe accadere, senza poter sapere se intorno a noi ci sono minacce ma forse anche doni allettanti. Ebbene, «in Dio non c’è tenebra alcuna», solo comunione e gioia e vita.

Anche noi siamo quindi chiamati a vivere nella luce, nella trasparenza, nella semplicità e gioia complete. Non perché non abbiamo difetti, «se diciamo di essere senza peccati, inganniamo noi stessi» (1Gv 1,6), ma perché il peccato non è più il centro del discorso.

Se la promessa di vita di Dio fosse condizionata a dei risultati specifici, ad aver fatto o evitato di fare certe scelte o gesti, se dipendesse dall’adesione a una legge, allora non potremmo che chiederci se ne siamo all’altezza. Ci capita anche nelle relazioni umane, di credere di doverci meritare amicizia o amore o stima. È solo quando incontriamo amicizia e amore veri che scopriamo di essere amati indipendentemente dalle nostre scelte o dai nostri limiti. Non perché questi non siano importanti (chi ci ama ci vorrebbe perfetto, non ama i nostri difetti), ma perché l’amicizia non può essere “guadagnata”, si riceve solo in dono. E l’amico accoglie e sopporta l’amico anche nei suoi limiti, pur sperando e aiutandolo a superarli.

Così il Dio svelato in pienezza da Gesù (benché già presente nel Primo Testamento) è un Dio che non vuole esecutori disciplinati dei suoi ordini, ma persone innamorate, che sappiano vivere appieno l’amicizia con Lui. A quel punto, come con gli amici più intimi, si può anche pensare di stare davanti a Dio in piena trasparenza, anche con i nostri peccati. Non per vantarcene, perché sono limiti e difetti di cui è bello e bene liberarci per vivere bene, ma perché possiamo metterci davanti a lui in piena libertà, sapendo che saremo amati comunque.

Angelo Fracchia