Spesso chi non conosce troppo bene la tradizione cristiana (e, ahimè, a volte anche chi la conosce) immagina la Bibbia come un insieme di prescrizioni: chi le adempierà tutte, o almeno una buona parte, avrà un premio, gli altri un castigo. Non si tratta però di una presentazione adeguata, perché ci troveremmo di fronte a norme molto disparate e incoerenti, e persino perché non avremmo la certezza su quali testi dovremmo prendere in considerazione.
La Settanta
A volte pensiamo infatti che la “Bibbia” sia un insieme ben definito di scritti, ma non è così.
Il popolo ebraico aveva iniziato a comporre e custodire lungo i secoli un elenco molto variegato di libri, accomunati dal fatto di essere scritti, appunto, in lingua ebraica.
Col tempo quegli scritti erano diventati assolutamente centrali nella vita religiosa, al punto che secondo alcuni ebrei non era più indispensabile recarsi al tempio, ma era invece opportuno dedicare del tempo allo studio della scrittura, almeno una volta alla settimana.
Passano i secoli, e sempre più ebrei vivono in contesti culturali vari, dove si perde anche l’uso della lingua ebraica. Confrontarsi con la scrittura diventa sempre più difficile, finché non si inizia a tradurre la Bibbia nella lingua allora più diffusa, il greco, che era un po’ come per noi l’inglese: anche chi non lo parlava come madrelingua, comunque lo imparava o lo capiva almeno un poco.
Ovviamente c’era chi pensava che non fosse rispettoso leggere la parola di Dio in greco, ma al riguardo ci si “inventa” una leggenda molto pittoresca. Si racconta infatti che un responsabile della biblioteca di Alessandria, volendo avere anche la sapienza ebraica in quella che era la raccolta di libri più grande dell’antichità, decise di chiedere a Gerusalemme che gli inviassero dei dotti in grado di scrivere in greco. Ne arrivarono settantadue, ognuno dei quali lavorò da solo, per settantadue giorni, alla traduzione della Bibbia, che alla fine risultò uguale per tutti. Era un modo per suggerire che anche il testo greco fosse ispirato, perché solo da Dio poteva venire una concordanza di quel tipo.
La scelta ebraica, al di là di questa leggenda, era stata importante, perché implicava che “parola di Dio” non erano le singole precise parole dette (altrimenti sarebbe stato blasfemo tradurle in un’altra lingua), ma il loro senso. E che si poteva essere ebrei senza capire l’ebraico, con un modello di religione potenzialmente universale che non era la consuetudine nell’antichità.
Tuttavia, quella che noi oggi definiamo la Bibbia greca, o “Settanta”, dai settantadue leggendari traduttori, non coincide perfettamente con il Primo Testamento ebraico. Alcuni testi vengono lievemente ampliati o cambiati, ma soprattutto nella Settanta troviamo libri che non esistevano in ebraico.
Uno di questi è il libro della Sapienza.
La letteratura sapienziale
Si tratta di un libro che rappresenta un genere intero. Se infatti nel Primo Testamento troviamo testi che raccontano vicende storiche o che si presume lo siano, e poi anche inni e leggi, rintracciamo insieme libri (anche in ebraico) che hanno una pretesa diversa. Il libro dei Proverbi, la Sapienza, il Siracide non partono infatti da eventi storici, ma da riflessioni per così dire fuori dal tempo. Sono saggi di sapienza umana, di riflessioni “di buon senso” o di sapienza trasmessa di padre in figlio.
Non è scontato che si trovino nella Bibbia. Potremmo infatti immaginare, in un’impostazione rigida, che solo tutto ciò che viene da Dio meriti ascolto e attenzione, mentre quello che scaturisce dalla riflessione umana potrebbe essere semplicemente sminuito come trascurabile. Non è così, nella Bibbia. Entrano invece a far parte del canone libri che sembrano di buon senso, di riflessione umana, di meditazione. Alcuni di quelli sembrano quasi non tenere in conto Dio. Che ci fanno nella Bibbia?
Chi ha deciso di inserirli e di tenerli, in realtà, faceva già solo con questa scelta un’affermazione teologica. Sosteneva che il pensiero umano, la meditazione di tante persone normali, la saggezza mondana, non sono qualcosa di insignificante o superficiale, ma portano sulla strada di Dio, sono importanti anche a livello religioso.
È una convinzione interessante, perché esclude qualunque forma di integralismo che continua spesso a condizionarci non solo in ambito religioso: è una tentazione umana, infatti, quella di pensare che solo “i nostri” abbiano capito le cose, che non ci sia da imparare nulla dagli altri. Un discorso religioso, poi, potrebbe facilmente immaginare che tutto ciò che viene dall’essere umano sia insignificante o pericoloso.
Non è così nel mondo ebraico, che ritiene invece che l’intelligenza umana, creata da Dio, sia in grado di cogliere tante cose di Dio. È vero che Dio entra nella storia e sapere che cosa ha fatto e scelto ci aiuta a conoscere più facilmente e rapidamente quello che lui pensa, ma già solo guardando un mondo che da Lui viene dovrebbe essere possibile capire che tipo di desideri e pensieri Dio possa avere. È un’intuizione molto dialogica che parte dalla creazione dell’uomo «a immagine e secondo la somiglianza» divina (Gen 1,26), per cui l’uomo, a partire da sé, può già sintonizzarsi con Dio. E questa sua intuizione non è necessariamente sbagliata o inutile.
La ricaduta è che quando l’uomo prova a pensare alla propria vita, alle norme di saggezza con cui viverla meglio, già si muove verso Dio, in qualche modo medita su di lui. La presenza stessa del genere sapienziale nel Primo Testamento dice una profonda e seria valorizzazione della ricerca umana.

La “Sapienza di Salomone”
Un libro in particolare riprende la parola, “sapienza”, e si immagina che sia stato scritto da Salomone. Ciò è impossibile, ma l’antichità è abituata ad attribuire dei libri ad autori inventati, per garantire l’anonimato degli autori veri, in segno di umiltà e per dare lustro all’opera. In realtà deve trattarsi di un’opera della prima metà del i secolo a.C., scritta in un bel greco da parte di chi di certo è abituato a pensare “alla greca”. Il tentativo è di offrire una meditazione che potremmo quasi chiamare filosofica, facendo notare che si accosta perfettamente alla tradizione ebraica. E, dall’altra parte, presentare la storia di tanti personaggi ebrei significativi facendo notare che sono coerenti con ciò che nel suo mondo solitamente si presenta come saggezza.
Chi ha scritto questo libro si è lanciato in una impresa molto coraggiosa, di far dialogare due mondi culturali che non si guardavano troppo con simpatia. Come tante operazioni coraggiose e ardite, magari non sempre i risultati sono all’altezza delle speranze, perché l’autore sembra condividere l’idea che l’anima sia preesistente al corpo ed eterna, con una separazione che non è della tradizione biblica (Sap 8,19-20), e che quindi il corpo le sia inferiore (9,15), così che di consguenza svaluta le realtà terrene (2,23), che invece per il mondo biblico sono molto significative. Ma non si può che restare ammirati di fronte al tentativo di fondere tutto ciò che è divino con tutto ciò che è umano.
Dentro a questa opera recuperiamo almeno alcune battute dell’inizio del libro, nel primo capitolo.
Bontà del mondo
Una tentazione di persone religiose potrebbe essere quella di “morire al mondo”, attendendo soltanto l’incontro con Dio oltre la morte. Si tratta di un’aspirazione che sembra anche bella e giusta, ma che rifiuta il bene che può venire dalla vita, dal mondo. Un mondo che è stato creato da Dio con sapienza (Sap 9,1-3), tanto che rifiutarlo significa, in fondo, rifiutare un dono divino.
Ecco allora che l’autore di questo libro invita con forza a non cercare la morte, a non attirarsi la rovina, perché «Dio non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Dio ha creato tutto per la vita, così che sono solo gli empi a puntare alla morte, mentre tutte le creature cercano la vita e servono alla vita.
È un inno gioioso e ottimista quello che porta l’autore della Sapienza a invitare i credenti a godere del bene che hanno in questo mondo, cogliendo ogni gioia e ogni piacere come frutto dell’opera buona di Dio.
Certo, non ogni piacere è buono, perché c’è un godere del male altrui, senza giustizia né sapienza. Ma è tipico degli empi invocare la morte, pensarla amica, scendere a patti con lei o desiderarla (Sap 1,16). Provare a godersi la vita nella giustizia, invece, questa è anche volontà di Dio.
Angelo Fracchia