La presenza della Consolata a Roraima ha una portata di livello storico. Nonostante questo, non riusciamo ancora ad averne una visione globale. Le fasi dell’evangelizzazione e le idee per il futuro. La missione che i nostri due istituti dei missionari e delle missionarie hanno portato avanti a Roraima ha un valore enorme a livello storico. Si tratta del lavoro con gli Yanomami, i Wapichana, gli Ingarikó, i Wa-Wai e diversi altri. Ne abbiamo parlato e scritto tanto, ma secondo me non abbiamo ancora la visione generale della profezia che è questa esperienza, sia per la storia del Brasile sia della missione stessa. Forse è la missione più completa che abbiamo realizzato. Le fasi Parlando di evangelizzazione in generale, la possiamo suddividere in tre fasi. Le prime due sono l’annuncio e l’adesione personale all’annuncio di chi lo riceve, ovvero il cammino di fede. La terza, che spesso manca, è il cambiamento sociale che la buona novella deve indurre. Il Vangelo, infatti, deve portare una rivoluzione sociale, un miglioramento della condizione umana. A Roraima siamo riusciti ad andare avanti anche su questa terza fase e per questo la ritengo una missione completa. Questa parte io la chiamo «cammino di liberazione». Anche questo percorso mi piace dividerlo in tre momenti. C’è il progetto di liberazione, ovvero il progetto di Dio, come quando chiedeva al suo popolo ebreo di uscire dall’Egitto e liberarsi dalla schiavitù. Poi c’è la stabilità, una volta raggiunti gli obiettivi di liberazione del popolo: vuol dire che il cammino ha portato i suoi frutti. Infine l’ultimo passaggio: una volta arrivati alla terra promessa cosa si fa? Anche questa è una grande sfida. Il cammino di liberazione Applichiamo questo percorso a Roraima. Questo cammino è stato fondato su un progetto fatto insieme, missionari e missionarie con i capi dei vari gruppi indigeni. Un cammino che toccava non solo la promozione umana ma anche la spiritualità. L’obiettivo era l’omologazione della terra (registrazione ufficiale di area protetta), ovvero gli indigeni avrebbero potuto dire «questa è casa nostra». E, sappiamo, la terra è davvero importante per i popoli indigeni. Fa parte dei diritti dell’uomo. È stato un percorso di assemblee con i vari gruppi, con tutti i leader indigeni. Lo hanno chiamato «O la va, o la spacca». Ad esempio hanno deciso che dovevano smettere di bere alcol. Se nella comunità qualcuno avesse bevuto, il missionario non l’avrebbe più seguita, non avrebbe più officiato battesimi e matrimoni, nulla, e la comunità sarebbe rimasta isolata. Anche l’adesione ad alcuni progetti, come «Una vacca per l’indio», senza egoismi o protagonismi. Erano posizioni molto forti. Si creava un controllo sociale per portare avanti il cammino di liberazione. Questa era la prima forza di quel momento. La seconda forza di questo primo periodo è stato il gruppo di missionari presenti. Erano molto uniti e solidali tra loro. Avevano tutti sposato la causa indigena, certo ognuno con la sua caratteristica, ma l’hanno portata avanti insieme. In una zona immensa come quella dove operavamo, se ci sono poche missioni isolate che portano avanti il progetto, si fa fatica. È l’unità d’intenti che fa parte dello stile di Giuseppe Allamano. La terza forza è stata il metodo, ovvero il coinvolgimento diretto della gente e dei suoi leader. In sintesi: progetto chiaro e condiviso; unità dei missionari che lo portano avanti; coinvolgimento della popolazione. Un altro punto importante era che fosse un cammino in comunione con la chiesa locale. È vero che in quel periodo i missionari della Consolata erano anche la chiesa locale. Eravamo gli unici e avevamo anche il vescovo. All’epoca i missionari hanno avuto anche un’altra intuizione. Si sono detti: «Finché la lotta resta interna, difficilmente saremo ascoltati, perché restiamo una minoranza. Dobbiamo portare questa lotta al mondo. In questo modo il governo riceverà pressioni dalla comunità internazionale». È il concetto di lobbying, che per quel tempo, gli anni 80, era una novità. Questo, talvolta, ha attirato critiche perché poteva sembrare segno di protagonismo. Ma occorreva uscire dal cortile, e in questo caso ha pagato. La terra promessa L’omologazione è stata raggiunta e i garimpeiros (minatori illegali, ndr) cacciati, almeno in un primo momento. E adesso? Il popolo ha raggiunto la terra promessa, si sono innescate delle nuove dinamiche. Ci sono quelli che si dimenticano il cammino di sofferenza fatto, arrivano altri che proprio non lo conoscono. A livello delle persone, c’è chi ritorna a bere l’alcol, altri si mangiano tutte le vacche. C’è una seconda questione: i missionari non sono più gli stessi. La maggioranza di quelli che si trovano a portare avanti la seconda fase del cammino di liberazione non sono quelli che lo hanno compiuto. Se non hai fatto il cammino è difficile poi vivere la liberazione. Molti dei nuovi missionari arrivano da un altro continente, l’Africa, dove ci sono dimensioni di lotta diverse. Molti di loro sono alla prima esperienza missionaria e forse non hanno ancora chiaro cosa sia la missione. Manca la memoria, e non è facile recuperarla dagli anziani. Un nuovo percorso Abbiamo iniziato a impostare un nuovo percorso, quando ancora ero superiore generale. La domanda di base era: «Con i missionari attuali come possiamo continuare ad accompagnare questo popolo nel proprio cammino di liberazione?». Adesso a Roraima c’è una pluralità di situazioni. Ci sono molti missionari di altri istituti. Le priorità della diocesi sono cambiate: l’appoggio ai popoli indigeni non è più esclusivo. Dalle ultime riunioni che abbiamo fatto a Roraima, sono state suggerite due azioni importanti. La prima: costruire dei locali e valorizzare il Centro di documentazione indigena (realizzato negli anni da fratel Carlo Zacquini, ndr). Esso aiuta a recuperare la memoria, quindi prendere decisioni condivise da tutti e coinvolge la diocesi. La seconda: partecipare – come semplici membri, non come responsabili -, ai movimenti indigeni nati per la difesa dei valori e delle conquiste fatte. Provocazioni Infine, voglio lanciare tre provocazioni. Quale preparazione occorre, come missionario, per condurre un popolo alla liberazione? Dopo gli studi, abbiamo gli strumenti e l’umiltà di metterci a camminare con la gente? Il missionario, oggi
ALLAMANO SANTO il 20 ottobre 2024
Durante il Concistoro Ordinario Pubblico questo lunedì 1° luglio, Papa Francesco ha annunciato che la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore degli Istituti Missionari della Consolata, si terrà DOMENICA 20 OTTOBRE 2024 Il miracolo attribuito all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano è avvenuto nella foresta amazzonica brasiliana, nello Stato di Roraima, dove Sorino, uomo dell’etnia Yanomami, fu attaccato da un giaguaro che lo ferì gravemente alla testa, aprendo la scatola cranica; era il 7 febbraio 1996, primo giorno della novena del Beato Giuseppe Allamano. Trasportato all’Ospedale di Boa Vista, accudito dalle Missionarie della Consolata, che non cessavano di chiedere la sua guarigione per intercessione del Padre Fondatore, Sorino ha miracolosamente recuperato la salute in pochi mesi, e vive tutt’ora nella sua comunità indigena. L’inchiesta diocesana per lo studio del presunto miracolo è avvenuta nel marzo 2021 a Boa Vista, mentre l’iter del Dicastero delle Cause dei Santi si è concluso il 23 maggio 2024, con l’approvazione del decreto di riconoscimento del miracolo. E’ un momento molto significativo per la famiglia missionaria della Consolata, composta da Padri, Fratelli, Suore, Laici e Laiche. Suor Renata Conti e Padre Giacomo Mazzotti, che attualmente accompagnano la postulazione, parlano sul significato della Canonizzazione del Beato Allamano. In un messaggio i Superiori generali dei due Istituti, Padre James Lengarin, IMC, e Madre Lucia Bortolomasi, MC, scrivono: “La sua Canonizzazione è per tutti noi un dono immenso che ci invita ad ascoltarlo, ad attingere sempre di più alla ricchezza della sua santità. Siano i nostri occhi e il nostro cuore fissi sul nostro Fondatore per ascoltarlo e guardare alla sua santità che ci stimola a continuare in modo serio e profondo la sua missione”.
Saggezza Biblica: Tra Alimentazione e Spiritualità
«I giudei non mangiano se non si sono lavati accuratemente le mani, attenendosi alle tradizioni degli antichi, e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti…» (Mc 7,3-4). Gli ebrei, già dai tempi antichi, erano noti per il rispetto rigoroso di una serie di norme, che riguardavano, come dice Marco, le abluzioni, ma anche e soprattutto i cibi e il modo di nutrirsene. Persino i romani sapevano che i giudei non mangiavano alcuni alimenti, tra cui soprattutto il maiale, che i romani infilavano in qualunque piatto, tanto che non potevano non averlo notato. Perché tutte queste regole alimentari? Una spiegazione sbagliata Si pensa spesso che la ragione dei divieti alimentari imposti dalle religioni sia igienica. Quello che l’esperienza aveva dimostrato essere pericoloso, senza che se ne cogliesse la ragione, veniva vietato da leggi religiose che, in quanto tali, non erano tenute a spiegare scientificamente i motivi delle proibizioni. Ad esempio, si dice e si legge che l’impurità del maiale deriverebbe dalla difficoltà di conservarne la carne in maniera sana in ambienti caldi come il Vicino Oriente. Sembrerebbe quasi una spiegazione sensata e ragionevole, se non fosse che motivare razionalmente gli elenchi degli animali puri o impuri sfidi la logica: perché dovrebbero essere puri la cavalletta, la pecora, la capra, la mucca e impuri il cammello, il coniglio, il cavallo, l’astice? D’altronde, a smentire quella convinzione potrebbe semplicemente essere la constatazione che a essere puri sono i pesci “con squame e pinne” (Lv 11,9): sostenere che la conservazione di un pesce sia igienicamente più semplice di quella di carne di maiale, sfida logica ed esperienza umana. Allora? Quale può essere la ragione di quella divisione? Ordine animale Se iniziamo a passare in rassegna gli animali puri e impuri e le ragioni che si offrono nei testi biblici per il loro inserimento in uno o nell’altro catalogo, qualche idea inizia però a raccogliersi. Scopriamo tra gli animali puri uccelli che non siano carnivori (cfr. Dt 14,12-18), animali marini che abbiano pinne e squame (Dt 14,9, ossia i pesci, ciò che disegnerebbe un bambino di ciò che trova in un lago o in un mare: probabilmente non gli verrebbe in mente di aggiungere granchi e calamari…), quadrupedi che siano o ruminanti “con l’unghia divisa in due” oppure non ruminanti che non abbiano l’unghia di quel tipo. In effetti, è vero che la maggior parte degli animali che camminano su due unghie sono ruminanti, gli altri per lo più no. E questa osservazione sarebbe risultata probabilmente più semplice per una società contadina e agricola come quella ebraica antica. È questa, peraltro, la ragione per cui il maiale, con l’unghia divisa in due ma non ruminante, o il cavallo, con l’unghia unita ma ruminante, sono impuri. Cogliamo, ossia, che una logica c’è: gli animali che potremmo definire più “normali” sono ritenuti puri, gli altri no. Ancora una volta, però, abbiamo colto una logica, ma non una ragione. Possiamo andare più in profondità? Un capretto e il latte Possiamo avanzare di qualche passo se iniziamo a ragionare su una regola molto diffusa e rispettata persino oggi tra gli ebrei, e che ci può sembrare assolutamente strana. Nelle cucine del mondo ebraico osservante, infatti, troviamo regolarmente due insiemi di stoviglie, distinti e assolutamente da non mescolare, al punto che si preferisce anche non lavarli insieme: un insieme è destinato a cucinare piatti a base di carne, l’altro piatti che comportino latticini. Nessuna possibilità di mescolare un insieme di cibi con l’altro (niente ragù col parmigiano!). La ragione di partenza di questa norma che ci può sembrare curiosissima è una breve affermazione riportata in Dt 14,21 (come pure in Es 23,19; 34,26): «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre». Possiamo già iniziare a comprendere meglio il senso di un comando che non viene spiegato ma il cui senso, intuibile, viene poi chiarito bene da molti rabbini. Il latte, infatti, è un cibo particolare, che anche simbolicamente indica una promessa di vita: è il primo cibo dei mammiferi, serve a sfamare e dissetare ma è anche una apertura alla crescita, è in fondo l’unico cibo che non comporti di privare di vita altri (anche chi si nutre di vegetali consuma ciò che avrebbe un’autonomia di vita propria). Nel mondo in cui viviamo, dove il male è presente, anche Dio ha concesso, secondo Gen 9,2-6, di nutrirsi anche della vita altrui, per sopravvivere. Persino di quella giovane che potrebbe avere davanti a sé lunghi anni di crescita. Utilizzare però, per rendere commestibile o gradevole la carne, quel latte che prometteva vita al cucciolo, appare una crudeltà non necessaria. Non importa che né il capretto né la madre, ovviamente, siano consapevoli di questa crudeltà: la conosce chi cucina. E se è vero che ciò non accrescerebbe la sofferenza dei due animali, è pur vero che non tenere conto di questa delicata attenzione abituerebbe l’essere umano che cucina a non badare più al rispetto di ciò che è messo a disposizione dell’uomo per nutrirsi, ma che è un’espressione di quella vita donata solo da Dio e a lui sacra. Per essere sicuri di evitare ogni tipo di simile contaminazione, poi, la tradizione è arrivata alla separazione completa di carne da una parte e latte e latticini dall’altra. Il senso di una norma Quella breve, apparentemente insensata e mai motivata regola, quindi, ci permette di entrare all’interno della logica delle norme tutte di alimentazione. Alcune di queste hanno alla base un’attenzione delicata, di rispetto della vita che pure viene utilizzata per sopravvivere. Altre sembrano seguire semplicemente dei criteri molto superficiali ed esteriori di “ordine”. Tutte queste regole, però, hanno in comune il fatto che, nel momento in cui ci si trova davanti a una vita che potrebbe essere utilizzata per nutrirsi, non può non sorgere la domanda se quella fonte di energia sia pura o impura. Ossia, occorre essere consapevoli di ciò che si fa.
Andare alle Genti n. 5 – 2023
Sinodalità come tempo opportuno per convertirsi a un metodo nuovo ma anticodi vivere la Chiesa e di evangelizzare. In uno stile meno preoccupato di stilare documenti eorientato invece a promuovere una vita cristiana autentica e pienamente vissuta (dall’ Editoriale). FOCUS: Mongolia, casa nostra Andare alle Genti Desideri abbonarti alla nostra rivista missionaria? Inviaci la tua richiesta per abbonarti alla rivista che racconta la missione e temi di attualità alla luce della fede e nella prospettiva missionaria. Il tuo indirizzo Email Per sapere come usiamo i tuoi dati, consulta la nostra pagina Privacy Policy Invia richiesta
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