Intervista a Suor Claudia Gavarini, missionaria della Consolata italiana, vive a Birmingham, in Alabama (Stati Uniti). In questo stato, segnato da una storia di segregazione razziale, le Missionarie della Consolata vivono la missione di consolazione da circa 50 anni.
Comunicare la speranza. Un’altra informazione è possibile
Una mostra per il Giubileo 2025 nell’atrio dell’Aula Paolo VI, iniziativa promossa dalla Società San Paolo e dalle Figlie di San Paolo, con il patrocinio del Dicastero per l’Evangelizzazione e del Dicastero per la Comunicazione. «Gli obiettivi del giornalismo sono due: proteggere la democrazia e aiutare le persone ad affrontare la quotidianità. Le inchieste sono importanti, ma anche la proposta di soluzioni a ciò che non funziona». Questa splendida frase che riassume in poche parole il senso del giornalismo, specie in tempi in cui il quotidiano è così funestato da terribili eventi in ogni latitudine, è il mantra di Styli Charalambous, co-fondatore del sudafricano Daily Maverick, una testata avviata nel 2009 da una start-up di cinque persone (oggi diventate più di cento), che sta avendo un grande successo. Ragionando su questi temi, nell’occasione dell’apertura dell’Anno Santo il cui motto recita “Pellegrini di speranza”, i giornalisti Francesco Antonioli e Gerolamo Fazzini, si sono interrogati su come il giornalismo, al di là della giusta denuncia, possa anche comunicare fiducia, attesa di un futuro migliore, e su cosa abbia da dire il Giubileo appena cominciato al mondo dei comunicatori e dei media. Da queste domande è nata l’idea della mostra “Comunicare la speranza. un’altra informazione è possibile”, un’iniziativa promossa dalla Società San Paolo e dalle Figlie di San Paolo con il patrocinio del Dicastero per l’Evangelizzazione e del Dicastero per la Comunicazione, e affidata per la realizzazione all’agenzia Mediacor, sotto la regia di Paolo Pellegrini e Simona Borello. La mostra verrà esposta per la prima volta nell’ingresso dell’Aula Nervi in Vaticano il 25 gennaio prossimo, in occasione del Giubileo del Mondo della Comunicazione. Una seconda copia sarà da subito esposta presso la Basilica di Santa Maria Regina degli Apostoli, centro significativo per gli Istituti della Società San Paolo e delle Figlie di San Paolo, per poi diventare itinerante nei mesi successivi (sarà anche possibile prenotarla per iniziative presso istituzioni, centri culturali, parrocchie e realtà associative). L’iniziativa vede anche il patrocinio di COPERCOM (Coordinamento delle Associazioni per la Comunicazione), FESMI (Federazione Stampa Missionaria Italiana), FISC (Federazioni Italiana Settimanali Cattolici), associazione METER, UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana) e WeCa (Associazione WebCattolici Italiani). In 24 agili pannelli presentati con una grafica accattivante, la mostra lancia agli operatori della comunicazione, sulla scorta degli inviti di Papa Francesco, un forte appello alla corresponsabilità. La mostra – fruibile in più lingue, tramite un apposito QRcode – chiede a ciascuno di ripensare al proprio ruolo a servizio della collettività, così da rinsaldare la dimensione civile della professione del comunicatore, a maggior ragione se si rifà ai valori cristiani. I pannelli sono pieni di dati, notizie, storie, statistiche aggiornate. Tra i molti spunti interessanti che emergono scorrendoli, c’è quanto segnala il Digital News Report, lo studio più autorevole sull’andamento dei media e dell’informazione condotto annualmente dal Reuters Institute for the Study of Journalism. L’edizione 2024 ci restituisce un panorama in profonda trasformazione in cui si delineano alcuni trend: la sensazione in molti utenti di un eccesso di informazione, difficile da gestire; l’insistenza sulle bad news da parte dei media e un problema di credibilità degli operatori dell’informazione. Il tutto provoca l’inquietante fenomeno noto come “news avoidance” l’allontanamento dall’informazione da parte di un segmento crescente di pubblico, un dato che presenta preoccupanti ripercussioni in ordine alla qualità della democrazia. La mostra cerca di far luce sui motivi di disaffezione del pubblico verso le news e nel contempo punta a evidenziare altri modelli possibili di comunicazione positiva. Dà voce ai tanti esempi di figure di giornalisti e giornaliste del lontano e vicino passato, noti o meno, che si sono distinti come testimoni credibili, a volte a prezzo della vita, per la loro passione per la verità e per la ricerca instancabile della giustizia – da Walter Tobagi a Ilaria Alpi, da James Foley a Maria Ressa– così come a esperienze e figure in grado di esaltare un giornalismo costruttivo. Comunicatori che, al di là di appartenenze, fedi, orientamenti e provenienze geografiche, sono capaci di diffondere speranza grazie a un giornalismo orientato alla ricerca di soluzioni, non solo concentrato sulla denuncia di ciò che non funziona. «Per partecipare pienamente alla celebrazione del Giubileo del Mondo della Comunicazione – afferma l’equipe di lavoro della Società San Paolo e delle Figlie di San Paolo – i nostri Istituti si sono uniti per realizzare alcune iniziative tra cui questa Mostra itinerante che intende mettere in evidenza l’attualità del tema del Giubileo – Pellegrini di Speranza –. È un nostro contributo per sottolineare l’importanza teologica e pratica della speranza nell’affrontare le crisi contemporanee. La Mostra itinerante cerca di dare risalto all’impegno di tanti che hanno vissuto i valori della professione giornalistica, anche a costo della vita, diventando agenti attivi di speranza, incarnando la misericordia e la giustizia nel loro importante servizio di informazione alla società e alimentandone la coscienza etica». Il percorso si conclude con la riscoperta della feconda eredità di don Giacomo Alberione e suor Tecla Merlo, fondatori e ispiratori profetici nel loro tempo, figure il cui messaggio merita di essere riletto e riproposto anche oggi. «L’impegno per una comunicazione di speranza – dichiarano i due giornalisti Francesco Antonioli e Gerolamo Fazzini autori dei testi – è una passione che supera il confine tra credenti e non credenti. È passione civica per la ricerca della verità, per la difesa convinta della democrazia: proprio per questo è un giornalismo in piedi, onesto, imparziale, capace di accompagnare al futuro perché in grado di distinguere con autorevolezza i fatti dai commenti. Con questa chiave di lettura abbiamo proposto alcuni testimoni del secolo scorso e del tempo presente che hanno provato a vivere e testimoniare questi valori». Le iniziative paoline del Giubileo continueranno a partire dal pomeriggio di sabato 25 gennaio alle ore 15.00 presso la Basilica di Santa Maria Regina degli Apostoli alla Montagnola, in uno dei panel ufficiali della giornata. Il convegno intitolato “Dalla competizione alla collaborazione: new media come vettori di speranza per i giovani in un mondo conflittuale”, si soffermerà in particolare sui nuovi media, sul loro futuro e sulla loro influenza nella società attuale. Moderati dal direttore di Famiglia Cristiana
Per andare in profondità
Gli eventi importanti della vita vengono a volte vissuti e raccontati con una certa superficialità, magari anche toccante e commovente, ma solo a distanza capiti davvero in profondità. Capita anche per le vicende del tempo del Natale, passato da non molto tempo. I primi racconti, pur seri e profondi, si prestano di più a un ritratto oleografico, toccante ma un po’ banale, come in fondo è capitato che diventassero. Solo qualche anno dopo un altro autore evangelico provò a riflettere più radicalmente su che cosa era accaduto, regalandoci una pagina certamente difficile ma anche capace di farci gettare uno sguardo come sull’abisso da un’altezza prodigiosa. Il vangelo è quello di Giovanni, e la pagina che riflette sul Natale, senza peraltro citarlo, è quella iniziale, il prologo (Gv 1,1-18). Una parola intraducibile? A chi conosce lingue diverse dalla propria piace dire che una certa parola è proprio intraducibile, che questo sia vero o no. Succede qualcosa del genere con una delle prime parole del vangelo di Giovanni: logos. Uno studente del classico potrebbe rispondere che significa “parola”, e avrebbe ragione. Ma spesso succede che una parola abbia tantissimi significati. Logos non indica soltanto la “parola”, ma anche la “logica” (che infatti deriva da lì), il “principio logico”, il “ragionamento”, addirittura il “senso che sta sotto alle cose”. Giovanni parte dal logos e dall’”in principio”, che ovviamente ci fa pensare all’inizio della Genesi. In un versetto solo ci parla di Bibbia e di ricerca filosofica, di ebraismo e paganesimo, di Gerusalemme e di Grecia. E, un po’ a sorpresa, non parte da Dio. Parla dell’”in principio”, che non è soltanto all’inizio ma è anche ciò che c’è in profondità, come fosse il “principio fondante”. E ci fa pensare, a ragione, che anche per le persone più religiose all’inizio non c’è la ricerca di Dio, ma del nostro fondamento, di ciò che ci fa vivere una vita sensata. Può sembrare blasfemo, ma non lo è, ricordarci che se Dio non ci facesse vivere bene, non lo cercheremmo. In principio non c’era Dio, ma il logos, che è più importante di Dio stesso. Il principio unificante, la logica di fondo, il senso del vivere. Ma questo principio era presso Dio, dalle parti di Dio, addirittura tendeva a Dio. Anzi, Dio era esattamente questo principio. Ciò che il mondo della filosofia aveva cercato, ciò che Genesi aveva colto nella creazione, dopo Gesù è più chiaro vederlo in lui, che è Dio (Gv 1,1). E quindi? Anche se spesso Giovanni sembra stare fermo e ripetere ciò che ha già detto, di fatto a ogni passaggio sul già detto procede un poco oltre, come a spirale… Ad esempio, il v. 2 sembra ripetere il già detto, ma mette all’inizio un pronome (“lui, questo”) che è una ripresa di logos (che è parola maschile, dunque tutto torna…) ma che intanto comincia a lasciare intuire che questo logos non è qualcosa di impersonale, ma è qualcuno. E poi si dice che tutto è stato fatto tramite quel logos (ovvio, se è il principio di fondo di tutto; ma se si comincia a pensare che si tratta di un “qualcuno” il discorso si fa più intenso…: v. 3), che in lui c’era la vita per gli uomini (v. 4) e che la vita era la luce degli uomini. L’immagine è interessante. La luce non ci dice che cosa dobbiamo fare, semplicemente ci fa vedere, per poter decidere liberamente e in sicurezza. La vita, dice Giovanni, non è lo scopo degli uomini (è vero, molti nella storia hanno rinunciato addirittura alla propria vita per uno scopo più nobile) ma è ciò che permette loro di muoversi, di decidere… Un passo avanti Il prologo è ampio e ricco e si arricchisce di stimoli interessanti ma che ci farebbero andare troppo per le lunghe. Vale la pena fare un salto avanti fino al v. 14: «E il logos divenne carne». Se fossimo dei filosofi greci, faremmo un salto sulla sedia. Come? Il logos, quel principio di fondo, quella logica… non si limita a restare qualcosa di teorico, di vagamente intuibile, ma entra nel mondo. E non entra nel mondo come un ologramma, etereo e sfuggente, ma si fa carne. Si fa concretezza pesante, esposta al limite, alla malattia, ai condizionamenti, persino alla morte. Un’idea può non morire, la carne no, morirà di certo. Dire che il principio di fondo del mondo si sia fatto concreto al punto da esporsi alla morte può essere un’idea spaventosa, allucinante. Ma non è un impoverimento? Non si contaminerà? E Giovanni non si ferma: «e si attendò in noi». La tenda era un ricordo piacevole e scomodo, per gli ebrei. Nelle tende ricordavano che i loro padri avevano vissuto durante i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, che erano stati un tempo di povertà e in fondo castigo, ma a strettissimo contatto con un Dio che provvedeva a loro, chiaramente, ogni giorno. La tenda, riparo prezioso ma fragile, diventa un facile simbolo del corpo, fuori dal quale non viviamo ma che è anche tanto debole. In questa fragilità, debolezza, precarietà entra il logos, entra Dio, attendandosi “in noi”. Vuol dire in mezzo a noi, ovviamente e come giustamente ci dicono le nostre traduzioni: entra nelle nostre consuetudini, costumi, relazioni. Come ogni bambino che entra nel mondo, anche il logos, Dio, deve imparare, e questo ci ripete ogni anno il presepe. Ma entra anche, addirittura, “in noi”. Diventa non solo uno di noi, ma diventa come noi, identico a noi. Il che significa che l’essere umano può prendere dentro, comprendere, Dio, il senso ultimo e profondo del mondo, delle cose, della vita. Non avremmo potuto immaginarlo, finché non avessimo visto Dio prendere tenda in noi. «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito lo ha rivelato». Tutto questo (e altro ancora!) è sottinteso in quel bambino avvolto in fasce. Angelo Fracchia
Le Benedizioni di Dio: San Paolo agli Efesini
Nel Nuovo Testamento troviamo alcuni inni a volte per noi un po’ più difficili da seguire, perché non sono delle storie o delle definizioni teologiche, ma che rappresentano le più antiche preghiere cristiane (solo il “Padre nostro” è più vecchio ancora…). Anche se ci sarà forse da faticare un pochino, può diventare davvero interessante andare a leggere e capire delle reliquie così antiche ed importanti. Una di queste si trova all’inizio della lettera di san Paolo agli Efesini. La lettera In realtà non dovremmo insistere troppo sul titolo dello scritto. Tra le lettere attribuite a Paolo, infatti, questa suona molto strana come lingua usata (molto più ampollosa e solenne del suo stile consueto) e come temi, che vanno molto nella direzione della “Chiesa” intesa come complesso universale o addirittura cosmico e non come comunità locale, e verso considerazioni mistiche che sono interessanti ma non erano una questione particolarmente cara a Paolo. Tra l’altro, non è neppure così sicuro che davvero sia uno scritto destinato agli abitanti di Efeso, città il cui nome compare solo all’inizio, ma che nei manoscritti più antichi manca o è stato aggiunto dopo. D’altronde, mancano anche i saluti personali, così tipici di Paolo, il quale pure aveva lavorato a Efeso per anni, per cui non dovevano mancargli di certo legami e persone care. Con ciò, questa si riduce, alla fine, a una questione da specialisti. Può darsi che non fosse una lettera per gli efesini e che non l’abbia scritta Paolo, ma comunque è un testo cristiano antico che riflette su temi solenni e mistici (la Chiesa) ma anche quotidiani e concreti (i legami familiari). Chiunque l’abbia scritta e per qualunque destinatario e motivo, è una riflessione che può essere utile anche per noi oggi, e che la seconda generazione cristiana ha ritenuto importante e degna di essere conservata e tramandata. L’inno L’inizio della lettera è molto consueto (e, se lo si fosse voluto, facile da imitare). Come si faceva sempre nelle lettere nell’antichità, si parte dal mittente (Paolo, apostolo di Cristo), si indica il destinatario (i santi che sono in Efeso) e si aggiunge un saluto, che nelle lettere paoline si incentra su Dio e a volte si fa molto lungo, mentre qui cita semplicemente il Padre e il Signore (Ef 1,1-2). Semplice, secco, diretto. Poi inizia l’inno, che sembra potersi dividere in quattro momenti. Non dobbiamo pensare alle strofe ben organizzate, ritmate e rimate della nostra tradizione poetica italiana, ma non corrisponde neanche alle abitudini delle poesie greche antiche. È più un discorso di taglio poetico, che di tanto in tanto sembra fermarsi solo per respirare e poi riprendere. Anche noi usiamo questa divisione in strofe per semplice comodità, così da respirare anche noi nella lettura. Il progetto del Padre (vv. 3-6) Si parte benedicendo il Padre e spiegandone il motivo: perché ci ha benedetti (v. 3). Non c’è l’approccio normale, anche per le preghiere, di una lode da suddito a imperatore, lusinghiera e servile, fosse pure per riuscire a ottenerne favori. C’è piuttosto un rapporto quasi alla pari: benediciamo perché ci ha benedetti. È l’approccio cristiano, che sa benissimo che l’umanità è inferiore a Dio, ma sa anche, in Gesù, di essere stati chiamati a vivere con Dio in comunione, in amicizia, alla pari, come si chiarirà già in questa prima strofa. Si precisa che questa benedizione del Padre è spirituale (sempre v. 3), non mira cioè a farci ottenere chissà quali beni mondani o salute o potenza, ma guarda al nostro spirito, al nostro intimo, alla profondità del nostro essere. Ed è una benedizione che ci arriva non direttamente, ma tramite “Cristo”. È però una benedizione che non è una novità, non è un piano che al Padre sia venuto in mente all’ultimo, ma l’ha in testa da sempre: fin dalla fondazione del mondo siamo stati chiamati a essere perfetti (v. 4), perché già eravamo destinati a essere figli del Padre, alla pari con lui, come Gesù, con la sola differenza che Gesù lo è per natura, noi per adozione (v. 5). Ecco perché l’inizio dell’inno non era presuntuoso e davvero potevamo trattare Dio faccia a faccia. Non per merito nostro, ma per la «benevolenza del suo volere», perché semplicemente il Padre ha voluto così, generosamente, perché ha un desiderio benevolo. Da sempre ha deciso, senza essere per nulla costretto, che noi umani fossimo come Gesù, in quella stessa comunione intima con lui. Passiamo da Gesù, ma siamo resi come lui. Public Domain Media – Letter of Saint Paul to Timothy Pacificazione in Gesù (vv. 7-10) Seguono quindi tre strofe che si incentrano tutte su Gesù, partendo da un “nel quale” che sempre parla di lui. Anche la prima strofa, d’altronde, parlava del Padre e di noi eppure doveva sempre passare dal Cristo, che è l’unico nostro tramite con Dio, in quanto è diventato come noi, uomo fino alla morte. E di morte di Gesù, del suo sangue, parla in effetti la seconda strofa, che non può che passare da lì ma non si incentra su quello. Non si può non parlare della croce, che dice da una parte, simbolicamente, il sacrificio che ha rimesso i peccati, cogliendo però che si tratta di un sacrificio fatto una volta per sempre, che implica la nostra “redenzione”, ossia il nostro essere riscattati, restituiti a libertà, non più schiavi, passaggio che non deve ripetersi ogni volta, ma è dato una volta per tutte. La croce mostra fino a che punto Dio sia disposto ad amare l’umanità: fino a morire, da parte del Figlio, e fino a lasciare morire colui che ama, da parte del Padre. Abissi irraggiungibili, estremi. Non si può davvero chiedere di più. E nello stesso tempo, siccome tecnicamente quello di Gesù sulla croce non è un sacrificio (non uccide sull’altare nessun animale), quel “sacrificio” suo personale dice che in realtà i sacrifici non serviranno più. E allora in Gesù scopriamo ciò che Dio da sempre aveva sognato di fare, ossia vivere nella piena comunione con gli esseri umani (v. 9). A
100 anni di missione in Somalia. Lo stile martiriale
Continuiamo a fare memoria grata per il dono della missione in terra somala, ricordando i 100 anni dall’arrivo delle prime Sorelle. La missione in Somalia ha avuto uno stile martiriale: di testimonianza con la vita e di sacrificio offerto con amore agli ultimi. La speranza è stata una virtù coltivata e cresciuta nelle Missionarie. Decine e decine di sorelle si sono consumate come incenso offerto a Dio, nella preghiera, abnegazione, sacrificio, per tracciare un solco nel deserto. Hanno offerto la loro vita per il popolo musulmano con la testimonianza silenziosa di vita evangelica, nel servizio della carità e nel rispetto di ogni persona. Un servizio donato con amore in umiltà, in silenzio, senza pretese, senza attese, fiduciose nella bontà di Dio, rispettando i suoi tempi. Il Fondatore voleva le sue figlie” Sacramentine”, cioè adoratrici, sempre in unione con Dio, pur donandosi generosamente ai fratelli. Dalla vita di unione con Dio scaturisce la vita e la vitalità della missione. In questa terra somala bisogna vivere di speranza: ma come? Dagli scritti di Suor Paola Rossi: Credendo alla forza creatrice delle parole di Gesù: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi “e vi ho mandate. Una missionaria scelta e mandata che vive fino in fondo la sua vita consacrata, evangelizza con la sua stessa vita. Ella diventa annunzio quando è segno e lievito di giustizia e di amore.. Sperare, sempre sperare, non aver paura di sperare troppo, non solo sperare, ma super sperare, diceva il Padre alle sue figlie. Come sperare quando l’apostolato è sterile, quando addirittura è rifiutato e impedito? Il seme che costantemente e silenziosamente si getta nei solchi aridi, certamente non andrà perduto, perché è un seme divino irrigato dal sudore di tante sorelle che per anni ed anni con serena speranza hanno umilmente gettato senza chiedere risultati. La speranza sia l’anima del lavoro di ogni missionaria in Somalia sostenga la loro fatica perché possano offrire con gioia sempre nuova i sacrifici e le sofferenze di ogni giorno. L’amore apostolico in Somalia consiste in un umilissimo servizio che conosce i fremiti del dolore, che sopporta pesi sudori e fatiche indifferenze durezze di ogni genere. Il messaggio evangelico può essere solo annunziato mediante l’esempio più eroico, senza parole, con una carità profusa in atti concreti, che il più delle volte non hanno contraccambio. In Somalia bisogna amare come Gesù “dare la vita” . Dagli scritti di Suor Paola Rossi
Suor Simona Brambilla nuovo Prefetto per la vita religiosa
Suor Simona Brambilla, missionaria della Consolata, è stata nominata dal Santo Padre Papa Francesco Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica. Dopo il suo servizio di Superiora generale nell’Istituto (dal 2011 al 2023), è stata nominata Segretario del Dicastero dal dicembre 2023. Ecco la nomina nel Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede: Nomina del Prefetto e del Pro-Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica Il Santo Padre ha nominato Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica la Reverendissima Suora Simona Brambilla, M.C., finora Segretario della stessa Istituzione curiale. Il Santo Padre ha nominato Pro-Prefetto del Dicastero per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica Sua Eminenza Reverendissima il Signore Cardinale Ángel Fernández Artime, S.D.B., già Rettore Maggiore della Società Salesiana di S. Giovanni Bosco. Vedi la notizia completa qui. Alla nostra cara Suor Simona assicuriamo la nostra preghiera e il nostro affetto e chiediamo alla Madonna Consolata e a San Giuseppe Allamano, nostro Fondatore, di sostenerla e benedirla in ogni istante di questo importante servizio alla Chiesa e alla Vita Religiosa.
100 anni di missione in Somalia. Gli inizi
Il 4 gennaio 2025 si ricordano 100 anni dell’arrivo delle Missionarie della Conolata in Somalia. IN questo articolo sono descritti gli inizi della missione e lo stile di vita delle Sorelle
Conta le stelle se puoi. RECAP del 2024
RECAP dei momenti più significativi di questo ricco 2024 che termina
Gli Angeli e la Presenza Divina: Un Legame Indissolubile
«Apparve a Zaccaria un angelo del Signore» (Lc 1,11), e un altro (chiamato per nome: Gabriele) appare a Maria. Entrambi annunciano la nascita di un bambino, inatteso da entrambe, per motivi opposti. Sono gli angeli del Natale, di cui sentiamo nuovamente parlare in questi giorni ma che ci sono discretamente familiari. Di angeli, però, parrebbe essere abbastanza piena la Bibbia intera. Gli angeli nella Scrittura Sono infatti molti i passi biblici in cui si immagina Dio circondato da angeli, come se fosse attorniato da una corte regale: «mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano», riassume il profeta Daniele (7,11). Altri angeli, però, sono più utilmente inviati a compiere diverse missioni: perlustrare la città di Sodoma prima della sua distruzione (Gen 19), consolare e indirizzare Agar (Gen 21,17), evitare che Abramo sacrifichi il figlio Isacco (Gen 22,11-18), accompagnare il popolo nell’esodo dall’Egitto (Es 14,19; 23,20.23), ma anche difendere il popolo in battaglia (Es 33,2; 2 Re 19,35). Può capitare che svolgano incarichi duri e sanguinosi, come contro i primogeniti d’Egitto (Es 12,23) o con la peste contro Israele (2 Sam 24,16-17) o contro gli assiri (2 Re 19,35), ma solitamente incarnano un intervento divino benevolo. Nel corso del tempo si distingueranno alcuni con incarichi particolari, come funzionari di corte, i “cherubini” (1 Sam 4,4 e altri testi) e i “serafini”, cioè “gli ardenti”, di cui parla il profeta Isaia (6,2-7). Non stupisce, allora, che li ritroviamo nel Nuovo Testamento, non solo negli annunci delle nascite di Giovanni il Battista e di Gesù, ma anche nella visione che annuncia ai pastori la nascita di un salvatore (Lc 2,13-14) e nelle parole di Gesù, oltre che nell’Apocalisse. Sarà solo nelle apocalissi, che né ebrei né cristiani ritengono ispirate, e nelle elucubrazioni medioevali, che gli angeli diventeranno davvero miriadi, organizzati in gerarchie rigide e molti di loro chiamati per nome. Che cosa dobbiamo pensarne? Se davvero fossero una presenza così imponente nel mondo che non vediamo, perché così tante parole sono dedicate nel Primo Testamento a Dio e all’uomo e così poche, comunque, per gli angeli? Come inserirli nel nostro quadro del mondo? Una premessa linguistica Prima di tutto, può essere opportuno segnalare una caratteristica delle lingue che parliamo e del modo con cui le utilizziamo. Tutti noi, infatti, veniamo al mondo in un ambiente che è fatto anche di una lingua che gli adulti intorno a noi parlano e che, ascoltando, impariamo. E nella lingua le formule restano vive anche molto tempo dopo la loro nascita, anche quando non sono più comprese nella loro origine. Anche se ben pochi di noi hanno esperienza della vita in monastero, continuiamo a dire di “non avere voce in capitolo” (cioè di non poter parlare là dove si prendevano le decisioni, nel Capitolo monastico, appunto); non abbiamo partecipato alle aste nella Firenze del Cinquecento, eppure continuiamo a dire di “essere al verde” (come la base delle candele che, quando finivano, indicavano la fine dell’asta, e il momento di dover pagare); o continuiamo a minacciare di “fare un quarantotto” anche se non ci ricordiamo che rimanda a un anno pieno di rivolte. E gli esempi potrebbero continuare a decine. Più seriamente, continuiamo a parlare di “testa e cuore” pur sapendo benissimo che anche i sentimenti partono dalla testa. O diciamo che “il sole tramonta”, anche se non crediamo che la terra stia ferma al centro dell’universo. Addirittura, e soprattutto in questo periodo dell’anno, possiamo consultare gli oroscopi anche senza immaginare che gli astri rappresentino divinità che condizionano il nostro futuro. Nella lingua, infatti, continuiamo a portare i segni dei secoli che ci hanno preceduto, anche quando non ne condividiamo più le premesse. Restano parte di noi, rimangono come forme a cui non facciamo particolarmente attenzione ma che continuamo a ripetere. Le divinità dei semiti Qualcosa di simile succedeva anche agli autori biblici e a Gesù, che accettavano nella propria parlata delle premesse che ci possono sembrare problematiche. Gli autori del Primo Testamento, così come Gesù e i suoi discepoli, parlavano quasi tutti lingue semitiche. Queste avevano condiviso la convinzione che tutto ciò che succede fosse causato da qualcuno di non visibile, e che quel mondo non visibile fosse organizzato in una rigida e lunga gerarchia, in cima alla quale stavano delle divinità che neppure si accorgevano del mondo. Scendendo, si trovavano gli dèi da venerare, e poi tutta una serie di intermediari, sul modello delle corti imperiali. Da una parte questo significava che non si poteva mai arrivare a conoscere davvero il dio supremo, ma dall’altra il mondo degli spiriti era pensato sul modello della gerarchia imperiale, nella quale i funzionari non avevano libertà di decisione, compivano solo ciò che era stato ordinato dal loro capo, che ubbidiva al suo, fino ad arrivare all’imperatore. Disubbidire a un funzionario anche di rango bassissimo equivaleva a disubbidire all’imperatore in persona, e lo stesso poteva dirsi per qualunque offesa che il funzionario dovesse subire. Un po’ come ci comportiamo noi oggi con gli ambasciatori. Anche nel mondo non visibile, quindi, si immaginavano gli angeli come intermediari senza autonomia, che si limitavano ad adempiere a degli ordini ricevuti. Si poteva quindi immaginare che l’intermediario rappresentasse chi lo aveva inviato, lo impersonasse. Le formulazioni ebraiche Su queste radici linguistiche, anche il mondo ebraico può riprendere l’idea di tali intermediari. Non è un caso che la parola che utilizzavano indicasse semplicemente un “messaggero”, con un nome comune che non significava niente di più. E la traduzione in greco, in effetti, “angelo”, non voleva dire nulla di diverso. Nel mondo della Bibbia non sembra esserci particolare spazio per esseri intermedi tra Dio e il mondo, come si vede nei capitoli dedicati dalla Genesi alla creazione, dove Dio fa tutto da solo. Ma la lingua portava a parlare di questi “angeli” che, d’altronde, sarebbero stati pensati come semplici tramiti della volontà divina. E in tal modo si evitava anche di mancare di rispetto a Dio, indicandolo come troppo facilmente presente nel mondo. In ogni caso, non sarebbe cambiato nulla, perché i preconcetti semiti
Verità o profezia?
Capita, a volte, che diamo a un episodio della nostra vita, a un brano letto, a una persona incontrata, un significato che poi, col passare del tempo, dobbiamo correggere con un altro sentito più appropriato. Può succedere, però, che a quel primo significato fosse stato legato un grande valore. Può accadere anche a brani biblici, e qui può diventare più difficile decidere come comportarsi riguardo ai due sensi possibili del testo, magari anche molto lontani tra di loro. Tra gli episodi del genere, spicca nella storia dell’interpretazione biblica cristiana un passo del profeta Isaia. Un re angosciato Anche se gli elementi storici e le datazioni possono essere discusse, pare che nel capitolo 7 del libro di Isaia ci si ponga nei primissimi anni, forse mesi, del regno di Acaz, che vive certamente in un contesto storico difficile. Appena salito al trono, infatti, si trovò probabilmente in un gioco internazionale più grande di lui. Dal nord minacciava di scendere l’esercito assiro, tremendo e irresistibile. I re di Samaria e di Damasco, vicini di Giuda, cercano di fare fronte comune per provare a resistere con le armi, ma il giovane re non sembra convinto a lanciarsi in una guerra contro gli invincibili nemici di Mesopotamia. Il calcolo politico era probabilmente giusto, ma i vicini premevano e decisero di invadere la Giudea per sostituire il re con qualcuno disposto a collaborare. Che fare? Cedere a Samaria e Damasco significava condannarsi a una probabile pessima fine militare (cosa che in effetti accadrà ai due vicini), ma resistere comportava di dover affrontare due vicini più forti di Giuda. È in questo contesto che arriva il profeta a parlare al re, invitandolo sostanzialmente a confidare nella vicinanza divina. Una promessa sfuggente Il profeta è tanto sicuro dell’appoggio di Dio da spingersi a offrirne un segno al re. Questi, così, si trova ancora più vincolato nelle sue decisioni. Se chiede a Dio un segno e questo giunge, sarà costretto a seguire le indicazioni del profeta. Ma come potrebbe rifiutarsi? Se arriva un aiuto e non lo si accetta, l’esito è di rompere anche con chi quell’aiuto aveva offerto. Acaz tenta di sottrarsi a questa stretta in un modo elegante: «Non chiederò un segno a Dio, non voglio tentarlo» (Is 7,12). Si tratta di un’espressione di fede, di per sé, per evitare di costringere Dio a esprimersi. Ma siccome Dio aveva già dichiarato la propria disponibilità, rifiutarne il segno implica di voler fare senza Dio, e si comprende l’ira del profeta, il quale, però, non se ne va sdegnato, ma offre lo stesso al re un segno: «Siccome non chiedi un segno, te lo darà Dio stesso: la almà concepirà e partorirà un figlio» (Is 7,14). Chi è la almà? La parola, in ebraico, indicava una donna dalla sua prima mestruazione al suo primo parto. Si pensa che questa donna fosse la giovanissima regina del giovane re. La nascita di un erede avrebbe potuto essere il segno che Dio non abbandonava il regno, che garantiva una continuità alla dinastia. Certo, si trattava di un segno fragile, debole, perché il neonato avrebbe dovuto diventare grande, prima di poter essere utile. Ma è un segno in sintonia con ciò che Dio fa in tutta la Bibbia, nella quale non ama mai presentarsi in modo schiacciante, senza lasciare spazio alla libertà dell’uomo. Insomma, pare proprio che quel tipo di promessa sia in accordo con il carattere di Dio in tutta la sua storia con il popolo d’Israele. È un segno, non la sicurezza o la garanzia di salvezza, un semplice segno che può indicare che di Dio ci si può fidare. Tempi e traduzioni… Molti secoli dopo gli ebrei decidono di tradurre in greco il loro testo sacro, che ormai non è comprensibile a troppi credenti. Il lavoro è lungo e complicato, e comporta anche alcuni scogli particolarmente difficili. Ad esempio, come tradurre almà? Il greco (come peraltro l’italiano) non ha una parola che indichi esattamente la stessa cosa. I traduttori scelsero quindi di privilegiare la parola che sembrava più vicina, ossia parthenos, “vergine”. L’esito non è però lo stesso: annunciare che la giovane donna avrebbe concepito e partorito un figlio maschio, se l’annuncio era rivolto alla regina, era una promessa non scontata ma relativamente facile da adempiere. Promettere che a concepire e partorire sarebbe stata una vergine implica di spostare l’accento dal non scontato al miracoloso. D’altronde, l’esistenza di Acaz e le minacce assire erano ormai lontane nel tempo, non significative per i lettori greci. L’intervento divino, così, si sposta dal piano della storia a quello (apparentemente) della fine del mondo, di un darsi di Dio assolutamente straordinario e prodigioso. I lettori degli ultimi secoli prima di Cristo pensavano probabilmente che si trattasse di una promessa che non poteva compiersi nella storia, ma solo in paradiso o poco prima. Ma quando i cristiani iniziano ad annunciare il vangelo, e insistono sul fatto che Giuseppe non sia il vero padre di Gesù, quel testo di Isaia torna a parlare in modo straordinario, come una profezia precisa di ciò che era accaduto nella nascita del Signore. Chi ha ragione? Per generazioni si dimenticò la prima interpretazione del testo di Isaia, che però ritornò in auge quando, negli ultimi secoli, si riprese a leggere i testi biblici con più attenzione alla storia e al modo antico di narrarla. Per i nostri tempi, però, la questione diventa spinosa. Non c’è dubbio che il primo modo di interpretare il testo di Isaia sia quello storicamente più probabile, in qualche modo quello vero. Ma non si può neppure dimenticare che tantissimi credenti di moltissime generazioni hanno creduto di vedere in quel brano un anticipo della nascita reale di Gesù: dobbiamo dire che si siano semplicemente sbagliati? Conviene piuttosto ammettere che, come in un’opera d’arte, i testi biblici sopportano, e a volte addirittura pretendono, una lettura molteplice, a più livelli. Il testo di Isaia è l’invito a una fiducia in Dio che non pretende di capire tutto, di tenere tutto sotto controllo, e neppure di vedere segni prodigiosi. È qualcosa di estremamente vicino allo spirito del
Buon Natale 2024
Natale della Speranza Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. (Luca 2,9-11) Il Natale riscalda il nostro cuore e ci ricorda che è tempo di luce, è tempo di pace, è tempo di farsi vicino, è tempo di volersi bene come fratelli e sorelle, è tempo di accogliere l’amore che è venuto ad abitare in mezzo a noi, è tempo di vivere nell’amore e per amore, è tempo di ravvivare la nostra SPERANZA. Accogliamo con gioia la benedizione di celebrare quest’anno il NATALE DELLA SPERANZA perché Dio, l’Emmanuele è in mezzo a noi per sempre. Suor Lucia Bortolomasi, Superiora generale e Sorelle del Consiglio
Maria tutta bella, prega per noi!
Podcast di sr. Simona Brambilla MC Maria tutta bella! Donaci il tuo sguardo puro verso Dio, verso l’umanità, verso l’intero creato. Donaci di scorgere la bellezza che abita in ogni creatura e di prendercene umilmente cura. Donaci la compassione verso ogni grido di dolore verso ogni bellezza sfigurata affinché immersa nel tuo grembo rigeneratore si trasfiguri in rivelazione della Grazia da cui è originata. Maria tutta bella, prega per noi! Ascolta tutto il podcast! 0:00 / 0:00 La bellezza di Dio e delle sue creature
Professione perpetua 2024
L’8 dicembre, nella Casa generalizia delle Missionarie della Consolata a Nepi, è avvenuta la Professione Perpetua di 4 Sorelle: Suor Ligia, portoghese, missionaria in Brasile – Amazzonia Suor Immaculate, ugandese, missionaria in Liberia Suor Luisa Piera, tanzaniana, missionaria in Argentina Suor Lucy, keniana, missionaria in Tanzania Ha celebrato l’Eucaristia Padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata. Per tutto l’anno si sono preparate a questo momento, con una formazione intensa a cui hanno aderito con tutto il cuore e con tutti talenti che ciascuna possiede. Con loro c’è anche suor Belarmina, mozambicana, missionaria in Mongolia, che farà la sua Professione Perpetua in Mozambico. Le abbiamo incontrate qualche giorno prima della celebrazione, indaffarate negli ultimi preparativi della festa e con le valigie da preparare per il loro ritorno in missione. Hanno aperto il proprio cuore e condividono con noi le ricchezze, i sogni e gli ideali con portano nel cuore. Cosa significa per te oggi dire SI per sempre? Suor Immaculate: per me oggi dire si significa accettare accogliere, appropriarsi del progetto che Dio ha per me. Far diventare mio il progetto di Dio, accoglierlo così com’è. Suor Luisa Piera: dire sì per sempre significa consegnarmi totalmente a Dio per il servizio di Dio e della Chiesa, facendo sempre la volontà di Dio. Suor Lucy: donarmi totalmente a Dio, tutta me stessa e tutto ciò che ho Suor Belarmina: adesione alla volontà di Dio, al suo progetto nella mia vita. Dire: “Sì, accolgo, voglio vivere!”. Suor Ligia: questo SI per sempre conferma la chiamata che già sentivo, e Lui, il Signore, vuole TUTTO. Donarmi con tutto quello che ho, tutte le mie forze, e mettere al servizio sempre in unione con Cristo, e fare la volontà del Padre. Avete vissuto un anno intenso di preparazione alla Professione Perpetua. Quale tesoro vi portate in missione dopo quest’ anno di preparazione? La risposta è unanime: la ricchezza della formazione ricevuta e della condivisione fra noi. Il cammino di unione con il Signore e con le sorelle è un dono che ci porteremo per tutta la vita, ma non rimane nel nostro cuore solo, è da condividere con tutte le Sorelle. Un tesoro prezioso è la nostra appartenenza (rinnovata e fortificata) a questa famiglia religiosa missionaria. Quale sogno di missione hai nel cuore? Anche il sogno nutrito nel cuore è lo stesso per tutte: Essere testimonianza e presenza di consolazione e di amore, in una vita semplice e umile, vicina alla gente. Una missione-relazione, costruendo la comunione fra noi Sorelle in comunità e insieme alla gente, condividendo le gioie e i dolori. E se arrivasse un Extraterrestre, e doveste spiegargli: “Chi è la Missionaria della Consolata”, cosa rispondereste? E’ una donna… gioiosa, che accoglie, che è capace di guardare la realtà e capace di trasformare la realtà. ama il popolo, le sorelle, la famiglia, Gesù centro della vita. Non rimane chiusa in sé stessa, ma vive per dare vita agli altri. Innamorata di Dio, che cerca di vivere questo amore, sempre in uscita per l’incontro con i fratelli. Vita di umiltà, semplicità, accoglienza e gioia. Trasmette questa gioia che ha, quello che ha è da condividere con la gente che ha tanto bisogno di questo. E’ unita a Dio e gli altri possono conoscere Dio attraverso di lei. Madre di tutti. Dona vita, perché l’altro possa vivere ed essere consolato. è casa, è dimora per tutti. vive il discernimento come stile della sua vita. Buon cammino, Sorelle! Il Signore vi accompagni sulle strade della missione con la sua grazia!
TESSUTI “PARLANTI”
Nel Continente africano camminando per le vie delle città, come nei viottoli che solcano villaggi e paesini s’incrociano uomini, bambini, donne, quest’ultime in particolare, vestite di “colori”. Stoffe sgargianti fregiate da disegni, arricchite da volti, che narrano eventi politici, sociali, religiosi… o da frasi, tra le più svariate, che esprimono i sentimenti di chi le indossa. Perché, l’abbigliamento in Africa, allo stesso modo del cibo, narra del luogo e della cultura alla quale i singoli appartengono ed è considerato una vera e propria manifestazione di significati profondi che vanno al di là della sua funzione concreta, quella di coprire e adornare un corpo. I tessuti in Africa, in qualsiasi epoca, anche oggi, sono un mezzo di comunicazione importante. A seconda della zona geografica, del periodo storico e del contesto sociale, il modo di vestire cambia di pari passo con la cultura del popolo a cui appartiene. Un tempo, i tessuti servivano anche come moneta di scambio, erano portatori di messaggi, ma soprattutto rappresentavano, per via delle decorazioni che li arricchivano, una sorta di documento dove si poteva trovare impressa l’identità sociale e religiosa del proprietario, raccontavano la sua storia, specialmente, se era una persona in vista nella società. Ogni regione, ogni località, ogni piccolo Stato, aveva elaborato delle decorazioni diverse, spesso geometriche e l’abito funzionava come uno “stemma araldico”, a volte, era lo stesso regnante che creava il disegno e sceglieva i colori del suo “casato”, oppure attribuiva ai suoi dignitari alcuni colori particolari in modo da poterli distinguere individuandone le funzioni a corte. In Ghana, per esempio, gli Ashanti, uno fra i più importanti gruppi del Paese che formò un Impero che si estese dal Ghana centrale fino al Togo e alla Costa d’Avorio odierni (la monarchia Ashanti continua ad esistere insieme ad altre unità sotto-statali tradizionali riconosciute dalla costituzione, all’interno dell’odierna Repubblica del Ghana), producevano grandi tessuti in seta, chiamati “kente”, con disegni geometrici molto colorati che differivano da una famiglia all’altra. Queste decorazioni non erano create dal nulla, ma facevano riferimento alle antiche tradizioni, quelle che si esprimevano attraverso racconti, leggende e ricordavano gli avvenimenti “storici” che avevano marcato la vita della famiglia, del clan, o del sovrano. Altri “segni” grafici utilizzati in diversi Paesi africani, per decorare tessuti, stuoie, pareti domestiche, statue di antenati e maschere svolgono un ruolo pedagogico. Si tratta di segni che “parlano”, citano proverbi e detti popolari, interrogano e propongono rebus, fanno memoria dei miti e, in questo modo, “insegnano” ed “educano” chi li guarda. Sono segni che tramandano un “sapere”, che ricordano i valori della tradizione, e invitano a rispettarli. Anche oggi, in Africa, nella vita quotidiana, la simbologia nascosta tra i colori, i disegni, i fregi, i volti di un semplice indumento è molto ricca. La piramide, ad esempio, indica la consapevolezza di una gerarchia sociale: alcuni per ricchezza, fama, saggezza, potere… si elevano sopra gli altri e illuminano la strada da percorrere; la chioccia con i pulcini, invece, rappresenta il ruolo fondamentale di una madre all’interno della famiglia, sia in termini di coesione tra i vari membri che in termini di protezione verso i piccoli da accudire. Oltre ai simboli tradizionali, ne sono subentrati dei nuovi come le lettere dell’alfabeto, per indicare la scolarizzazione dell’individuo che indossa il tessuto, oppure elementi di modernità come l’automobile, la televisione, il cellulare. Esibire un vestito con dollari variopinti, poi, è simbolo di affermazione economica, e le spighe di mais confermano la ricchezza e l’abbondanza. Durante le campagne elettorali, è molto facile riscontrare volti di leader politici sui capi d’abbigliamento. A Yaoundé, in Camerun, per esempio, è consuetudine stampare il viso del Presidente sugli abiti. I candidati distribuiscono alla gente il tessuto gratuitamente, allo stesso modo con cui, in altri Paesi del mondo, regalano ai loro sostenitori le proprie spille elettorali, T-shirt… Non mancano, poi, le stoffe “religiose” dove l’immagine più popolare è quella di Gesù Bambino. Anche il volto del Papa in cima al Vaticano, o i volti di Santi, sono soggetti molto usati e solitamente vengono abbinati alla scritta: “Pregate per noi”. A volte, le donne usano i tessuti come alleati per trasmettere i propri messaggi, e comunicare emozioni, desideri, successi… perciò, l’abito non viene scelto in base alla fantasia dei colori, oppure al tipo di cotone, ma piuttosto per la “frase” che si trova impressa sul telo. Una ragazza tanzaniana o kenyota che desidera riappacificarsi con un amico può indossare una “kanga” con la scritta “Nilijua yatawakera sana”, che significa “Ho saputo che sei molto arrabbiato con me”, oppure più semplicemente “Penzi haina shirika”, “L’amore non ha limiti”. È una questione di stile, ma non solo: mentre in Europa e in America s’inviano messaggi d’amore cifrati, via sms, col proprio cellulare, in Africa esiste un canale in più, per esprimere i propri sentimenti e gli stati d’animo: le stoffe multicolori con frasi adatte cucite addosso e indossate senza vergogna. suor Maria Luisa Casiraghi
Madre Margherita Demaria
L’8 dicembre ricorrono i 60 anni dalla morte di Madre Margherita Demaria, Suora Missionaria della Consolata del primo gruppo di Sorelle giunte in Kenya. Madre Margherita ha vissuto la sua vita missionaria nel servizio di autorità fin dai primi anni di vita religiosa e quindi Superiora generale dell’Istituto dal 1947 al 1958. Riportiamo uno stralcio di una sua lettera che esprime bene la sua passione per Dio e per la missione, nella quale ricorda un fatto che terrà caro nel cuore fino al giorno della sua morte: Chi l’avrebbe detto che, a dieci giorni appena dal mio arrivo in Africa, avrei avuto la grazia invidiabile di dare il mio primo battesimo? La data non poteva essere migliore: 8 DICEMBRE, FESTA DELL’IMMACOLATA! Dopo aver catechizzato in diversi villaggi, giungemmo ad uno ove la suora che ci guidava, dopo aver risposto al saluto dei circostanti, entrò in una povera capanna, facendo cenno a me di seguirla. Là dentro, presso un focherello semispento, stava accoccolata per terra una povera donna molto vecchia. Le suore la seguivano da tempo, cercando di istruirla almeno quel tanto da poterla battezzare in punto di morte; e questa ormai non era più tanto lontana. Per tre volte era già stata portata nella brughiera perché sembrava in fin di vita, ed essa era ancora sempre tornata a casa. La poveretta ci accolse abbastanza bene e noi, preso uno di quei famosi sgabellini kikuyu alti una mezza spanna, ci sedemmo accanto a lei, per meglio salutarla e conoscere le sue intenzioni. La suora e il catechista le ripetevano l’istruzione religiosa e io, seduta sul minuscolo seggiolino, non facevo altro che pregare sommessamente. Alla fine la buona vecchietta accettò di essere fatta figlia di Dio e Sr. Oportuna invitò me a battezzarla. Non so dire la commozione che provai, tanto che piansi di consolazione. Dopo non sapevo più staccare lo sguardo da quel viso che subito mi parve trasformato. Perfino gli occhi semi spenti parevano brillare di una vivacità insolita. Ed io continuavo ad asciugarmi le lacrime. Lettera di Madre Margherita del 9/12/1913 Il giorno della sua morte, l’8 dicembre 1964, Madre Margherita ricordò ancora con commozione questo episodio. Ascolta il ritratto che ne fanno Suor Renata e Suor Giovanna Armida:
LA FORZA PER RADDRIZZARSI
Luca 13, 10-17 10Gesù stava insegnando di sabato in una sinagoga. 11Ecco una donna, che da diciotto anni aveva uno spirito che la rendeva inferma, ed era tutta curva e assolutamente incapace di raddrizzarsi. 12Gesù, vedutala, la chiamò a sé e le disse: «Donna, tu sei liberata dalla tua infermità». 13Pose le mani su di lei, e nello stesso momento ella fu raddrizzata e glorificava Dio. 14Or il capo della sinagoga, indignato che Gesù avesse fatto una guarigione di sabato, disse alla folla: «Ci sono sei giorni nei quali si deve lavorare; venite dunque in quelli a farvi guarire, e non in giorno di sabato». 15Ma il Signore gli rispose: «Ipocriti, ciascuno di voi non scioglie, di sabato, il suo bue o il suo asino dalla mangiatoia per condurlo a bere? 16E questa, che è figlia di Abramo, e che Satana aveva tenuto legata per ben diciotto anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?» 17Mentre diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, e la moltitudine si rallegrava di tutte le opere gloriose da lui compiute. 1 Il testo possiede una forza simbolica estremamente importante anche per noi oggi. Ci racconta la storia di una donna piegata che riceve da Gesù la forza per raddrizzarsi e diventare libera. In ogni tempo ed in ogni società ci sono categorie di persone che vivono piegate e curve, una condizione di sminuita umanità. La potenza liberatrice del Vangelo si vede in tutta la sua forza di annuncio della libertà. Il testo racconta l’incontro tra Gesù e la donna curva (Luca 13, 10-17) e come lo sguardo e l’azione di Gesù abbiano trasformato la sua condizione. Le donne non sono una presenza molto marginale in sinagoga: come mai è lì? Per abitudine? C’è stata portata? Ci si è trascinata con la speranza di un briciolo di sollievo da parte del Signore? Non sappiamo, non dice nulla, è lì. Una infermità, una debolezza, una fragilità la rende curva, ma il termine può indicare molte cose che si oppongono alla “vita”, forse anche l’essere stimata meno di un bue o un asino. Spesso anche noi sentiamo ciò che ci abbatte, forse neppure sappiamo darle un nome; forse anche noi guardiamo in basso, a terra e non abbiamo il coraggio di alzare la testa di porci di fronte alla realtà di esigere rispetto, uguaglianza… Cosa ci rende curvi? Un peccato? Una omissione? Una ferita ricevuta o inferta? Cosa ci rende curvi, incapaci di guardare il futuro con speranza? 2 La guarigione è provocata dallo sguardo di Gesù, l’evento più importante nella narrazione è che Gesù vede (idein), la donna piegata e curva. Vedere è scoprire l’altro/a, è riconoscere che l’altro esiste per me…, Gesù vede con uno sguardo pieno di compassione la condizione di sofferenza dell’ultima fra gli ultimi…, per Gesù quella donna è la persona più importante che c’è nella Sinagoga… Siamo in un giorno di sabato e Gesù è nella sinagoga insegnando la parola di Dio al popolo. Dopo averla vista Gesù la chiama. La donna è chiamata nella sua doppia condizione, di donna e di sofferente. La chiamata di Gesù penetra la condizione sconfortata della donna. Essa, infatti è piegata e può vedere soltanto la terra, non può guardare nessuno dall’altezza dei suoi occhi… Questa situazione ha un profondo significato socio-simbolico. In quel tempo “tutte le donne” vivevano quella stessa condizione di essere piegate e curve, ossia di subordinazione assoluta, la malattia fisica che la piega si trasforma in segno del pregiudizio sociale del tempo che piega la donna e la rende appena più di oggetto o possesso dell’uomo. Inoltre, secondo le interpretazioni rabbiniche del tempo, essere umani consisteva nella capacità di vedere, parlare, discernere, d’interloquire con altri e con Dio. La donna non può pregare perché non può raddrizzarsi, ha la testa bassa, segno dell’umanità caduta e del peccato. Non può per se stessa mettersi in piedi…. “Gesù la vide, la chiama a sé e le dice: «Donna, sei liberata dalla tua malattia”. Gesù non chiede di analizzare le cause del nostro essere senza orizzonti, lo vede prima che noi ce ne rendiamo conto pienamente, Egli ci guarda, ci chiama e ci libera. 3 Fermiamoci a sentire il suo sguardo su di noi, la sua voce che pronuncia il nostro nome e lasciamo che questo sentire raggiunga le nostre profondità, là dove siamo più feriti, e allora risuonerà il suo “sei libero/a”, “alza lo sguardo”, “ricomincia”, “ raddrizzati” e “rendi gloria a Dio”. Cosa rende curvi noi? Cosa rende curva l’umanità? Cosa ci impedisce di guardare oltre e sperare? Gesù non si limita a guardare e a chiamare la donna, ora parla e dice “sei slegata”, il che significa ora sei libera, e a questa parola potente aggiunge il gesto definitivo dell’imporre le mani. Il risultato è che la donna, immediatamente si raddrizza, acquista la sua piena umanità e dignità, è liberata, diventa soggetto e persona, tutte le caratteristiche che le erano negate per la sua malattia e per la sua condizione di donna. Questo avviene notate, in sinagoga, nel luogo sacro e in giorno di sabato il giorno che la fede ebraica sacralizza per l’incontro con Dio. Ora la donna come risultato della liberazione prorompe in un canto di lode a Dio, finalmente può rivolgersi a Dio perché Gesù l’ha raddrizzata e non è più piegata su se stessa è riabilitata. 4 La reazione del capo della sinagoga merita un commentario dettagliato, si tratta apparentemente di un’obiezione ragionevole. Ribadisce la prassi ebraica del sabato, in questo giorno gli esseri umani si devono astenere di qualunque lavoro, mentre gli altri sei giorni sono da dedicare alle opere umane. In queste parole vi è implicita una doppia condanna di Gesù e della guarigione della donna. Notate quanto sia sottile l’obiezione di questo capo della sinagoga. In primo luogo considera la guarigione avvenuta come opera e lavoro umano e dunque non è un’opera di Dio. L’azione compiuta da Gesù è lavoro umano e non opera di Dio (ergon tou Theou). Con questa interpretazione dell’opera
La Croce di Cristo: Una Sfida ai Paradigmi di Forza e Sapienza
San Paolo è un gigante del Nuovo Testamento, del quale gli Atti degli Apostoli ci fanno conoscere parte della vita, e di cui risentiamo in qualche modo la voce nelle lettere, che erano quasi sempre scritti occasionali. Vale a dire che il loro autore non immaginava di scrivere dei trattati da pubblicare, ma rispondeva a problemi che gli vengono sottoposti o che gli riferiscono. La comunità di Corinto Ai tempi di Paolo, Corinto era una città importante e ricca. Situata in mezzo alla Grecia, occupa una sottile striscia di terra che unisce la penisola del Peloponneso al resto del continente. E quel piccolo istmo è sempre stata una tentazione per evitare alle navi il periplo della penisola, piena di scogli, mare agitato e venti forti. Se qualche anno dopo si tenterà di scavare un canale, ai tempi di Paolo i due porti della città erano uniti da una specie di linea di binari, incavati nella roccia, che permettevano a specie di vagoni ferroviari di essere trainati da un porto all’altro, per caricare poi di nuovo delle specie di container sulle navi, risparmiando così almeno una settimana di navigazione e molti pericoli. Corinto, di conseguenza, era davvero un porto di mare, pieno di gente e di soldi di passaggio, pieno di lavoro, da quello pesante e mal retribuito a quello più redditizio ma non sempre onesto. Sempre in quegli anni, la battuta che girava nel Mediterraneo è che “non è da tutti vivere alla corinzia”, pensando a una vita fatta di instabilità e piaceri e molto dispendiosa. In questa città, ci dice Luca negli Atti degli Apostoli (At 18), Paolo arriva dopo un’esperienza molto deprimente ad Atene, dove aveva tentato di impostare un discorso molto colto e raffinato per annunciare il Vangelo, ma si era trovato davanti ascoltatori sarcastici riguardo alla risurrezione… A Corinto probabilmente Paolo pensava di non fermarsi a lungo, ma trova evidentemente un contesto favorevole all’annuncio. E il motivo, forse, lo spiega lui stesso. Foto da Pixabay Il vangelo della croce «Quando venni presso di voi, fratelli, non venni con la pretesa di chissà quale linguaggio o sapienza nell’annunciarvi il mistero di Dio. Infatti non stimai di sapere altro tra voi, se non Gesù Cristo e lui crocifisso» (1 Cor 2,1-2). Paolo ha appena spiegato che apparentemente la figura di Gesù non risponde alle attese del mondo. Il mondo religioso del tempo, soprattutto per Paolo, è nettamente diviso tra “ebrei e greci”. Gli ebrei erano portatori di un messaggio religioso rivelato, che trova la propria ragion d’essere fuori dal mondo, che si muove nell’intimo della coscienza, disposto per questo a rinunciare anche a tante opportunità del mondo. Questo contesto culturale e religioso cercava conforto alle proprie rinunce e alle proprie scelte in un Dio potente che si sarebbe imposto sul mondo, mostrando la correttezza delle impostazioni di vita che richiedeva ai suoi fedeli. I “greci”, dall’altra parte, erano coloro che, pienamente inseriti nel flusso di moda dell’ellenismo, volevano mostrarsi ed essere acuti, intelligenti, intuitivi, arguti… Come ad Atene, cercavano i ragionamenti raffinati, capaci di affascinare e stupire l’interlocutore. Non sembravano particolarmente interessati a ciò che non era mondano ed umano, lo schernivano come irrilevante (come si era sentito dire Paolo, «su questo ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32). L’annuncio cristiano è però la vicenda e la croce di Gesù. La croce diceva la sconfitta, la debolezza, la maledizione da parte dello stesso Dio (Gal 3,13), e non poteva che sconvolgere e sconfortare “gli ebrei”. Nello stesso tempo, però, era un discorso estremamente umano, concreto, ma che guardava oltre, che cercava il proprio senso nell’affidamento al Padre, sconfessando la pretesa di autonomia dei “greci”. Paolo, però, rimarca che quel tipo di discorso può essere, per chi lo coglie in profondità, forte e sapiente, perché dice lo stile di Dio, che pur essendo creatore e Signore onnipotente, decide di entrare in relazione profonda e paritaria con l’essere umano, al punto da farsi come lui, accettando addirittura il passaggio più triste ed umiliante della vita umana, che è la sua fine, la sua sconfitta. È la forza di chi non ha bisogno di dimostrare di essere forte ma sa chinarsi al debole per portarlo con sé. Ed è il discorso più profondamente intelligente e saggio, perché proprio il farsi uomo di Dio dice che l’essere umano è importante, è fondamentale, è il cuore della creazione divina, è ciò che lo stesso Dio ha dovuto imparare ad essere. Dice, insomma, che tutta la ricerca umana potrà non bastare a sé stessa, ma è preziosa e ineliminabile. In Gesù, sostiene Paolo, se guardiamo in profondità, troviamo la forza e la sapienza di Dio. E per noi? Potrebbe venire da chiederci che cosa dica a noi una pagina del genere e in che cosa possa esserci utile. Se ci pensiamo bene, questi due approcci di fondo continuano a essere presenti tra noi. Nessuno si senta offeso, ma tra noi, e addirittura in ognuno di noi continua a essere presente il “giudeo”, che pensa di essere nel giusto ad ubbidire a delle regole che non si è dato da sé, e sotto sotto spera che gli altri, i “cattivi”, vengano un giorno puniti per dimostrare che avevamo ragione noi. Una fede indossata come un’arma, a muso duro, per imporci sulla malvagità altrui. E c’è in noi anche il “greco”, che vuole essere affascinante, che in fondo non si fa guidare da Dio nelle proprie scelte anche quando si dice credente, che pensa che essere alla moda e mostrarsi intelligenti e “scafati” sia più importante delle scelte eticamente corrette. Ad entrambi la figura di Gesù ripete che lo stile divino non è di imposizione, non è di battaglia per vincere, ma di vicinanza e ascolto, addirittura di violenza subita, se non si riesce a farsi ascoltare. Senza vendetta, senza ritorsioni (il Gesù risorto non si presenta al grido di “Avete visto che avevo ragione?”, ma ripetendo “Pace a voi”). Senza imporsi mai, sempre pronto ad accogliere e comprendere. E, insieme, è un Gesù che non
Avvento: l’attesa dell’amore
L’Avvento è attesa e memoria. Chi di noi non attende l’amore? E l’amore si attende con tutta l’esistenza: esperienza, corpo, mente, spirito, il pensiero e il sentimento. Se attendi l’amore, scruti l’orizzonte e anche le tue profondità, il tuo cuore. E ti scopri attesa dall’amore negli angoli più reconditi di te e nelle persone attorno a te. Suor Simona, mc 0:00 / 0:00 AVVENTO – L'attesa dell'AMORE