Sr. Leonella Sgorbati ha sempre avuto con il Beato Giuseppe Allamano un legame di Padre-Figlia. Un rapporto profondo fondato sulla certezza che Lui era veramente Padre e che la sua Parola orientava la sua vita. Questo vincolo ha raggiunto una maggior profondità nel mese allamaniano che Sr. Leonella ha vissuto a Castelnuovo in febbraio 2006. In questo mese approfondendo la vita e la Parola dell’Allamano è riuscita a intuire e a immergersi nella profondità spirituale di Padre Fondatore e a confrontare la sua vita con quella di Lui. I suoi diari ci svelano quanto questo percorso ha inciso nella sua vita e nel dono di sé descrivendoci la giornata di preghiera vissuta nella Chiesa del Fondatore il 15 febbraio 2006. Sul sarcofago dell’Allamano Leonella ha detto il suo sì alla chiamata al dono della vita che in quei giorni il Signore gli aveva fatto sentire con insistenza. Ha pregato così Sr. Leonella: «Padre eccomi qui…a 80 anni della Tua entrata in Paradiso… Uomo di Dio, Uomo fedele, uomo del Dio solo. Tu non hai avuto paura di seguire il Signore sulla strada della sequela. Eccomi qui, appoggiata alla Tua tomba… Tu santo Fondatore della mia Famiglia aiutami a dire il mio sì… Qui su questa tomba di gloria io ti prego: Donami la grazia della sequela vera della perseverante sequela. Donami di donare nella verità la mia vita con Lui… ogni giorno…momento per momento con fedeltà – verità – in reciprocità, totale unione, per “Cristificare” “umanizzare” … Concedimi questa grazia, compi questo miracolo. Questo il dono che ti chiedo: di essere veramente tua figlia nella sequela di Cristo. Nella unione a Gesù Eucarestia. Mi consacro qui nelle Tue mani rinnovando i miei voti al Signore». Anche la sua relazione con la Consolata era mediata dall’Allamano perché attraverso questo rapporto Leonella si è immersa nella profondità del legame che il Beato Giusepe Allamano aveva con Maria. Ultima foto di Suor Leonella, al suo arrivo a Mogadiscio Scrive Leonella nel suo diario il 16/2/2006: «Il Fondatore contemplando la Consolata intravedeva “la Donna dell’ascolto…” che comprende…, che non lascia fuori nessuno perché la Consolata ti accoglie dentro il suo sguardo… ti capisce… . Maria sposa è Madre, Donna dell’accoglienza. Maria è accoglienza della persona, di ogni persona. Nessuno si sente a disagio con la Consolata. Questa relazione materna è la strada maestra, la via regale della Consolazione. Queste sono le qualità che noi Missionarie dovremmo avere. Il Fondatore guardando la Consolata vedeva noi… con queste caratteristiche di Maria: finezza, attenzione, rispetto…. Accoglienza… Oggi io sono chiamata a essere la “dimora della consolazione” dove la gente possa sperimentare la Consolazione. È la nostra spiritualità Mariana, voluta per noi da Padre Fondatore.» Tutta la vita Religiosa Missionaria della Beata Leonella ha avuto questo particolare tocco di adesione totale al progetto pensato per le sue figlie missionarie dall’Allamano. Possiamo affermare con certezza che la vita e il cammino spirituale della Beata Leonella è stato tracciato sulla falsa riga della vita e della spiritualità dell’Allamano. In Lui ha trovato l’indicatore sicuro verso l’amore totale, verso il dono di sé, verso quel sogno che Giuseppe Allamano aveva desiderato per le sue figlie. sr. Renata, mc
Chi è Giuseppe Allamano nella mia vita
Missionari e Missionarie della Consolata aprono il cuore e condividono la presenza del Beato Giuseppe Allamano, Padre e fondatore della famiglia Consolata, nelle loro vite. Giuseppe Allamano: padre e maestro, anche nelle lettere! Padre Giuseppe Inverardi, missionario della Consolata in Tanzania, sente Giuseppe Allamano come un padre e un maestro. Lo era nei confronti dei primi missionari, ai quali scriveva lettere cariche della sua paternità, e lo è anche oggi per ciascuno dei suoi figli. Giuseppe Allamano: un padre per la missione Ascoltiamo Suor Nicoletta Marete, missionaria della Consolata in Kenya. Giuseppe Allamano è PADRE PER LA MISSIONE, con una visione ampia, che precede i suoi tempi.
Scintille che ardono e illuminano. Conferenza della Regione Europa
Si è svolta a Torino, nella Casa Madre dell’Istituto Suore Missionarie della Consolata, la VI Conferenza della Regione Europa, a cui hanno partecipato 23 Sorelle, in rappresentanza di tutte le comunità in Italia e Portogallo. La Conferenza è un’assemblea decisionale molto importante, che segna il cammino delle comunità della Regione, attuando le linee che il Capitolo generale (celebrato nel 2023) per i prossimi sei anni. Il tema della Conferenza della Regione Europa riprende l’immagine del fuoco, che ha accompagnato il Capitolo generale: “Scintille che ardono e illuminano”. La scintilla è un fuoco piccolissimo, che deriva da un fuoco più grande, ma, seppur piccolo, può illuminare. E’ un’icona eloquente per descrivere la realtà della Regione Europa, composta per la maggior parte da Sorelle anziane e malate, ma che, anche nella fragilità, sono una presenza viva del Carisma missionario e dell’offerta della propria vita per il mondo intero. Davvero durante gli incontri e le riflessioni, è apparsa la presenza di piccole ma numerose scintille nella Regione, e la gratitudine è stata grande! Durante la Conferenza è stata eletta la Direzione regionale che guiderà le comunità in Europa per i prossimi sei anni: SUOR GENEROSA IRERI IRUMA, kenyana, Superiora regionaleSUOR ALESSANDRA PULINA, italiana, Consigliera regionaleSUOR GIOVANNA PANIER BAGAT, italiana, Consigliera regionaleSUOR MARGARITA DEL SOCORRO BEDOYA GARCIA, colombiana, Consigliera regionaleSUOR JOFRIDA SIMON NZASULE, tanzaniana, Consigliera regionale L’Assemblea ha quindi riflettuto sulle linee programmatiche per il sessennio entrante, considerando i seguenti ambiti: – piccolezza e corpo unico e unito: in profonda comunione con tutto l’Istituto, la piccolezza e l’unione del piccolo corpo, che è la congregazione, si tracciano cammini personali e comunitari per vivere la piccolezza come una benedizione e per saldare sempre più legami di unione tra tutte le Missionarie della Consolata. – cura delle Sorelle fragili: uno sguardo colmo di tenerezza, amore e riconoscenza verso le Sorelle anziane, uno sguardo che considera la persona in tutte le sue dimensioni: fisica, spirituale, psichica. Uno sguardo, cioè, che punta al bene maggiore verso le sorelle fragili; – economia di comunione: la riflessione sull’amministrazione apre l’orizzonte alle nuove economie e a uno stile di vita sobrio e sostenibile, per la cura della Casa Comune. – Carisma e missione in Europa: sono considerati tre ambiti di azione: l’Animazione Missionaria Vocazionale, la Pastorale Migranti e la Comunicazione. AUGURIAMO BUON CAMMINO A OGNI SORELLA!
Caino, il primo assassino
I primi tre capitoli della Genesi presentano l’immagine dell’uomo così come è pensata dai saggi religiosi di Israele. In questa presentazione spesso si taglia fuori il quarto capitolo, che pure è come una conseguenza. L’essere umano era nella piena comunione con Dio, ne ha diffidato e ha iniziato a diffidare innanzi tutto della donna, “osso delle mie ossa” che gli era accanto. Ma le conseguenze della sfiducia non finiscono lì, hanno portato alla frattura tra Dio e la natura (Gen 3,17) e conducono alla stessa sfiducia tra fratelli, che sfocerà nel primo omicidio. Iniziare a diffidare di Dio porta a non riconoscere più il fratello come fratello. Ma quel capitolo, come spesso succede, è ancora più ricco e profondo di quanto non sembri. Antefatto L’Israele che scrive la Genesi è un popolo sedentario, che però continua a rimpiangere i tempi antichi in cui era pastore e nomade. Quindi, quando parla dei nomadi, pastori, raccoglitori e cacciatori, li guarda con una certa simpatia, mentre se pensa ai costruttori di città, artigiani e coltivatori, li sente più infidi. Questo serve a dire che già nella presentazione dei personaggi, ci si aspetta che Caino sia il cattivo. La sensazione (sbagliata) che il racconto sia “ingenuo” come i vecchi western prosegue nei versetti 3-5: Dio “gradisce” l’offerta di Abele e non quella di Caino: perché? Il lettore moderno si chiede perché Dio sia così ingiusto. Ma in realtà è una domanda che si fa anche il lettore antico, è un interrogativo che il narratore vuole che ci facciamo, per scomodarci, per costringerci a prendere posizione. Un po’ come, nel vangelo di Luca, la parabola del padre buono (o del figliol prodigo: Lc 15,11-32), dove è l’ultima parte a non finire, a dare fastidio e a essere il cuore della parabola: che cosa farà il fratello maggiore? È il lettore a doverlo decidere, e la parabola vuole proprio rivolgersi ai “fratelli maggiori” della chiesa, sicuramente buoni e a posto ma chiamati a porsi con Dio in un rapporto non di schiavitù. Anche qui, la domanda passa al lettore, che in fondo si può identificare con Caino: perché Dio dovrebbe accettare un’offerta e non l’altra? Verrebbe addirittura da dire che è colpa di Dio se Caino ha ucciso Abele. A leggere in profondità, si può però notare quanto di questo capitolo sia giocato sui dialoghi. Solo un personaggio non parla, ed è Abele; e Dio parla solo a Caino. Insomma, il racconto pare dire che Dio privilegia l’offerta di qualcuno, ma ad un altro parla. I due fratelli sono diversi, ma non significa che Dio non abbia un rapporto particolare con ognuno di loro. Occorre coglierlo, al di là dei preconcetti (qui il preconcetto è che Dio si esprima solo in un rapporto liturgico, solo nel culto, nella preghiera. E magari è un preconcetto che abbiamo anche noi). In fondo, ancora una volta la colpa di Caino è in prima battuta di sfiducia: non si fida di Dio, non crede che l’attenzione di Dio per l’offerta di Abele possa unirsi a una simile (ma diversa) attenzione di Dio verso di lui. Avviso Dio parla a Caino prima della colpa: “Perché sei abbattuto? Se ti comporti bene, rialzerai” (v. 7). Il testo non chiarisce se Caino rialzerebbe il volto (cioè si rallegrerebbe), o se stesso… o anche l’offerta, che si “innalzava” al cielo. “Se non ti comporti bene, il peccato è alla tua porta come un robez in agguato”. Questa strana parola ebraica non significa soltanto “accovacciato”, anzi converrebbe pensare a un tarlo… è un “rosicchiatore” in agguato alla porta, è chi consuma, lavora, erode lasciando la sensazione di poter essere trascurato perché non opera danni travolgenti. “Verso di te è il suo desiderio, ma tu dominalo”. Sono le stesse parole di Gen 3,16, dove il desiderio/passione era un bene, perché era teso verso un pari, verso un altro essere umano. Qui il desiderio/passione è di chi è inferiore all’uomo, diverso… e infatti questo deve essere dominato (come faceva l’uomo con la donna, ma là si trattava di un errore). Il peccato non può essere eliminato. Resta come un tarlo alla porta, resta presente. Ma deve essere dominato, dall’alto verso il basso. Occorre esserne consapevoli e gestirlo. E Dio è lì a consigliare, a raccomandare. Non fa il lavoro al posto dell’uomo, ma neppure se ne sta alla finestra a guardare. È coinvolto, pur non agendo al posto dell’uomo. Fatto Anche Caino parla ad Abele (anzi, a “suo fratello” Abele: si insiste moltissimo sulla fratellanza). Ma la sua parola non è un appello di comunicazione, è invece un invito a seguirlo per porre termine per sempre alla comunicazione. Ha qualcosa del bacio traditore di Giuda: ciò che dice solitamente l’affetto, diceva lì il desiderio di morte. “E nei campi si alzò Caino verso suo fratello Abele”. Caino aveva tentato di far salire l’offerta. Dio gli aveva detto che avrebbe potuto sollevarla se avesse sollevato il volto, o se stesso. Caino preferisce sollevarsi sì, ma contro il fratello. Sono sempre gli stessi elementi della vita giocati contro o a favore della vita stessa, della comunione con il fratello e quindi con Dio. Sembra quasi dirci che una vita buona o cattiva non sono qualcosa di radicalmente diverso: la vita è questa, giocata più o meno negli stessi elementi, ma disponendoli nell’ordine e nei rapporti giusti. Conseguenze Anche Dio riparla a Caino, con (sostanzialmente) la domanda che aveva già fatto ad Adamo: “Dove?” “Dove è tuo fratello?”. Non è una semplice richiesta di informazioni. È un appello alla responsabilità. E la risposta di Caino suona come una condanna: “Sono forse il custode di mio fratello?”. Sì, ogni fratello è custode del fratello. Tutto in questo brano dice non solo come vanno le cose, ma anche come invece dovrebbero andare. “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra” (v. 10): un altro appello, un’altra parola, anche se questa è muta. È una voce che non può più parlare. E questo suo mutismo è un appello
La guarigione miracolosa di Sorino Yanomami: una prospettiva teologica
Nelle prime ore del 7 febbraio 1996, Sorino Yanomami partì per la caccia dalla sua maloca (abitazione collettiva Yanomami). Mentre era in foresta fu assalito e gravemente ferito da un giaguaro. Secondo la popolazione locale, questo fu il secondo caso di un attacco di un giaguaro nella regione della Missione Catrimani, situata a 150 chilometri da Boa Vista, nello stato di Roraima. Nel primo assalto, avvenuto alla fine del 1995, furono ritrovate solo resti del corpo della vittima. Come sappiamo, Sorino Yanomami è stato soccorso in gravi condizioni dai Missionari e le Missionarie della Consolata che operano nella Missione Catrimani. Fu necessario trasferirlo d’urgenza all’Ospedale Generale della città di Boa Vista con un aerotaxi. La gente rimase scioccata e spaventata, e tutti credettero che non potesse sopravvivere. Per questo chiesero che Sorino rimanesse nella sua maloca per morire in compagnia della sua famiglia. Con fede, fiducia e speranza, come coloro che nel Vangelo trasportarono il paralitico nella barella e lo calarono attraverso il buco nel tetto davanti a Gesù per essere guarito, così le Suore Missionarie della Consolata, dopo aver prestato il primo soccorso, rischiarono tutto per portare Sorino a Boa Vista. Cominciarono a pregare il Beato Giuseppe Allamano perché intercedesse per la sua guarigione. A Boa Vista, le suore fecero i turni all’Ospedale Generale per assistere Sorino e facilitare la visita e il soggiorno dei parenti. Il canonico Giuseppe Allamano fondò l’Istituto dei Missionari della Consolata nel 1901 e la congregazione delle Suore Missionarie della Consolata nel 1910. Perciò, lui è il Padre Fondatore, un uomo tutto per Cristo e per la missione. Nel contesto della storia della guarigione miracolosa di Sorino Yanomami, Giuseppe Allamano è quel “buco nel tetto” attraverso il quale i quattro uomini del Vangelo fecero passare il paralitico perché potesse raggiungere Gesù ed essere guarito. Le suore hanno pregato costantemente il Beato Giuseppe Allamano per la guarigione di Sorino. I quattro uomini del Vangelo (Mt 9,1-8; Mc 2,1-12, Lc 5,17-18) ebbero fede in Gesù, credettero nel suo potere di guarigione. Era una fede pratica che li spinse a cercare a tutti i costi la guarigione del loro amico paralitico. Il paralitico sulla barella è in una situazione di impotenza, ha bisogno di aiuto. I quattro amici si fanno carico di lui, con fede libera, viva, incarnata in vari gesti. Secondo San Giacomo, “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,17). La fede, la fiducia nell’incrollabile bontà della potenza di Dio e la speranza spingono i quattro uomini a compiere un’azione senza precedenti. Superando i loro limiti, scoperchiarono il tetto della casa aprendolo e calando il paralitico con la sua barella al centro della casa dove si trovava Gesù. Non hanno paura della reazione della gente. Vogliono vedere il loro amico guarito. La fiducia è la quinta essenza della speranza, diceva il padre Giuseppe Allamano ai suoi missionari e missionarie. Nella cosmologia greca, il quinto elemento è l’etere, qualcosa di magnifico, grande, molto più grande dell’aria che respiriamo. La quinta essenza è l’etere. Si può avere tutto: aria, fuoco, acqua e terra, ma se non si ha fiducia e speranza, si può morire. Nel Vangelo leggiamo che Gesù guarisce tutti i malati che incontra o che gli vengono portati. “… la gente gli portava tutti quelli che soffrivano di vari disturbi e tormenti: gli indemoniati, gli epilettici e i paralitici; ed egli li guariva” (Mt 4,24). Ma Gesù guarisce anche grazie alla fede di coloro che si rivolgono a lui per ottenere la guarigione, come nel caso dei quattro amici che, con fede, fiducia e speranza, fanno passare l’uomo paralitico attraverso il buco del tetto per ricevere la guarigione di Gesù. La guarigione miracolosa di Sorino, come quella del paralitico, mette in evidenza il valore della fede concreta, della fiducia e della speranza, dimostrando che Dio è attento a coloro che lo invocano e si rivolgono a Lui nel momento del bisogno. La guarigione dell’indigeno Sorino in piena foresta amazzonica è un segno visibile della presenza del Creatore nella vita del popolo Yanomami e conferma il Carisma della missione ad gentes lasciata in eredità dal Beato Giuseppe Allamano. Suor Mary Agnes, mc La testimonianza di Suor Felicita sull’ incidente e sulla guarigione miracolosa di Sorino Yanomami
Il regalo più grande della mia vita
Suor Hannah Wamboi, missionaria della Consolata keniana, da più di vent’anni vive in Argentina. Il dono più grande che ha ricevuto nella sua vita è tato l’incontro e la condivisione con i popoli nativi in America: i Wichi e i Kolla.
Il miracolo di Sorino Yanomami
Il miracolo riguarda la guarigione di Sorino Yanomami, assalito e gravemente ferito da un giaguaro, nella foresta amazzonica brasiliana, il 7 febbraio 1996. Sorino è guarito e ha recuperato completamente la salute grazie all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano. Descrizione dell’evento Sorino Yanomami è un indigeno di etnia Yanomami, nato nella comunità di Maimasik (Roraima-Brasile), presumibilmente nel 1955 (giorno e mese non sono registrati). Residente nella comunità di Yaropi (nella regione del medio corso del fiume Catrimani), è sposato con Helena Yanomami, ma senza figli. L’ambiente in cui è inserita la sua comunità è l’immensa foresta amazzonica, da cui, come gli altri membri del suo popolo, può ottenere ciò che è fondamentale per vivere, tramite la raccolta, la caccia, la pesca e la coltivazione di grandi orti. La sua maloca (abitazione indigena, usando un termine tupi entrato nel vocabolario del portoghese brasiliano) è, tuttora, nei pressi di una “comunità missionaria della Consolata”, lì presente dal 1965 e costituita da religiosi (padri e fratelli coadiutori) e da suore missionarie. Il superiore di allora, Guglielmo Damioli, così ricorda Sorino: «Lungo gli anni, già sposato, col suo gruppo familiare, Sorino era venuto a costruire la sua maloca all’inizio della pista di atterraggio della missione. Appariva frequentemente alla missione, sempre accompagnato dalla sua giovane sposa. Uomo comune, semplice, con un sorriso perenne sul volto. Buon cacciatore, in foresta, sulla fragile canoa, gran lavoratore nella piantagione per contribuire col gruppo e sostenere la sua famiglia». Proprio nel cuore della foresta, quella mattina del 7 febbraio 1996, Sorino Yanomami subisce l’assalto di una femmina di giaguaro (onça pintada). Sempre Gugliemo Damioli, così racconta: «Il giaguaro, come di consueto, ha attaccato Sorino di sorpresa, alle spalle. Con una zampata, gli ha fratturato la scatola cranica. Sul posto, per terra, furono trovati dagli indigeni pezzi di osso e parte di massa encefalica. Nonostante la gravità estrema delle ferite, Sorino non perse i sensi; riuscì a svincolarsi, ad alzarsi e a usare l’arco come una lancia per tenere il giaguaro a una certa distanza, mentre gridava, chiedendo aiuto. In pochi minuti, con le grida e l’arrivo degli indigeni armati di archi e frecce, il giaguaro fuggiva». Il cognato di Sorino, B. (non riportiamo il nome, per rispetto delle usanze Yanomami che non pronunciano più il nome di una persona già morta), corre al piccolo dispensario della missione a cercare soccorso e l’infermiera titolare, suor Felicita Muthoni, missionaria della Consolata kenyana, si precipita sul luogo dell’incidente per rendersi conto della situazione e prestare le prime cure. Così, la suora ricorda quei primi momenti: «Ho visto Sorino per terra, in un bagno di sangue, sono rimasta impietrita, bloccata e tremante, non sapendo cosa fare. Ho chiamato sua madre e ho chiesto dell’acqua; poi ho capito che il cuoio capelluto sporgeva e che Sorino stava anche sanguinando molto; c’era molta sabbia, sporcizia e parte del cervello era fuoriuscito. Ho spinto dentro il cervello e poi ho preso il cuoio capelluto e l’ho rimesso a posto, ma continuava a sanguinare; era vivo, ma non parlava. Siccome non avevo portato niente con me, ho preso l’unica cosa che avevo, la maglietta che indossavo: me la sono tolta e l’ho avvolta alla testa di Sorino, per premere meglio e fermare un po’ l’emorragia. Ho poi mandato qualcuno a cercare la Toyota, in servizio alla nostra missione. Con dona Creuza, nostra aiutante, lo abbiamo messo in un’amaca e poi sistemato nella Toyota arrivata nel frattempo con fratel Antonio Costardi che si trovava anche nella missione. Sono rimasta con lui seduta nella parte posteriore, tenendogli la testa e ci siamo diretti al piccolo dispensario della missione». Riferisce ancora suor Felicita: «Ho guardato le sue mani, ma le vene non erano più visibili. Avevo del plasma e l’ho messo in un piede e, all’altro piede, una flebo di glucosio con un forte analgesico». Vista la situazione di estremo pericolo, suor Felicita chiede che Sorino venga trasportato all’ospedale di Boa Vista, capoluogo dello stato di Roraima. Riesce a contattare la CCPY (Commissione Pro Yanomami) e le viene assicurato un posto sul piccolo aereo che fa servizio nella vasta area indigena, anche se dovrà aspettare un po’, perché le richieste di aiuto sono numerose. Ma i compagni di Sorino si oppongono alla proposta di trasferire il paziente a Boa Vista. Come è frequente nella retorica che accompagna situazioni di tensione e preoccupazione, arrivano anche a proferire minacce; per loro, infatti, è inconcepibile che uno Yanomami possa morire fuori dal suo villaggio, senza l’accompagnamento dei parenti e di uno sciamano. Lo spirito di Sorino era pronto a fare il suo viaggio. Gridano: «No! Sorino resterà qui! Lo sciamano ha già detto che, quando il sole tramonterà, lui entrerà nella casa degli spiriti e salirà in alto». Alla fine, cedono alla richiesta di suor Felicita, ma con una minaccia terribile: se il loro compagno dovesse morire in città, lontano dalla foresta e tra “i bianchi”, uccideranno, con le loro frecce, i missionari presenti al Catrimani. Mentre si attende l’arrivo dell’aereo, un ragazzo porta una foglia di banano arrotolata, con dentro un frammento di osso della testa di Sorino, rinvenuto nel luogo dell’incidente, e formula una sua “diagnosi”: «Noi abbiamo visto bene quando Sorino è arrivato. Abbiamo visto il cervello, abbiamo visto l’osso, l’abbiamo tirato fuori e arrotolato e poi abbiamo parlato con gli xapuri, gli spiriti della foresta: Sorino non può vivere, perché il cervello è fuoriuscito!». Verso le 14,00, con l’arrivo dell’aereo, Sorino viene imbarcato, accompagnato dal tuxaua (capo del villaggio) C. Dopo circa un’ora di volo, all’aeroporto di Boa Vista, viene accolto da Suor Rosa Aurea e Suor Lisadele, che lo trasportano immediatamente all’Ospedale Generale. Ricordava il dott. José Nunes da Rocha, un medico che ha avuto in cura Sorino: «Quella di Sorino era una situazione molto grave e il paziente respirava con affanno, esalava miasma e non credevamo molto nella guarigione, perché il modo in cui era infetto, putrido e in un posto “nobile” come il cervello, avrebbe causato encefalite e meningite. Quindi, non avevamo davvero molte speranze, ma lui era arrivato
Perché Dio è il seminatore?
Sappiamo che Gesù ha narrato molte parabole, i vangeli ce ne raccontano tante. Spesso le pensiamo come raccontini un po’ ingenui, per bambini, brevi e leggere. Ciò non toglie che a volte vengano invece trattate dai vangeli come qualcosa di molto importante, vengano chiarite ed evidenziate. Una di queste è anche ripresa, spiegazione compresa, da ben tre vangeli. «Uscì il seminatore per seminare…» (Mc 4,3; Lc 8,5; Mt 13,3). Lo sfondo Proprio perché sono ben in tre i vangeli che narrano questa parabola, vale la pena cogliere dove ognuno degli evangelisti la sistema, perché per un narratore anche dove si inseriscono i “mattoni” narrativi è una parte del messaggio da trasmettere. Marco, ad esempio, raccoglie le parabole tutte in un solo capitolo, che inizia con questa, che viene ossia evidenziata come la più importante e fondamentale. In precedenza Marco si è dedicato a presentare un Gesù che con i suoi prodigi restituisce alle persone la capacità di entrare in relazione con gli altri, quindi che si distacca dai condizionamenti delle norme religiose (Mc 2,16-3,6) e delle superstizioni e convenzioni sociali (3,20-35). A questo punto giungono le parabole, che parrebbero concentrarsi soprattutto sul rischio di efficientismo (basta guardare Mc 4,27). Matteo dispone il suo materiale in cinque grandi tappe introdotte ognuna da un discorso di Gesù. Il terzo discorso, sul regno di Dio, comprende quasi solo parabole, di cui la nostra è, di nuovo, la prima. In Luca l’ordine dei singoli episodi ci sfugge di più, ma si direbbe che l’attenzione in questa parte del vangelo sia concentrata sulla contrapposizione tra i “giusti”, i “credenti”, “quelli di dentro”, e quelli che invece sono fuori: guarisce il servo di un centurione romano (7,1-10), con cui un ebreo non dovrebbe avere rapporti, poi interviene a risuscitare il figlio di una vedova, con un gesto di attenzione agli ultimi corrispondente invece alla tradizione ebraica (7,11-17), si confronta con la ebraicissima tradizione di Giovanni Battista (7,18-30) e ragiona con un fariseo, a tavola, sulle ragioni del perdono ai peccatori mescolandosi con loro (7,36-50). La versione di Luca è la più corta, il che per qualcuno significa che potrebbe essere la versione più “originaria”, ma anche in Luca questa parabola è l’occasione per spiegare il senso generale delle parabole. Per tutti, insomma, questo racconto è particolarmente importante. Racconto Il racconto è ben noto. «Uscì il seminatore per seminare». “La sua semente”, aggiunge Luca, come se non gli interessasse delle ripetizioni. Luca, in realtà, è uno scrittore abilissimo, per cui dobbiamo immaginare che in realtà quella ripetizione sia voluta. Il cuore del discorso è il seme, e la sua sorte. Non sappiamo chi sia a seminare, perché tutto quello che fa è seminare. Conta solo quello. Il seme finisce in tanti terreni diversi. Lo sappiamo, lo stile di semina e di coltivazione del Vicino Oriente antico era diverso dal nostro. A noi può stupire che non si getti il seme solo nella terra disposta ad accoglierlo. Da una parte, però, questa era la prassi fuori dalle grandi pianure della Mesopotamia. Sui monti e colline circostanti, infatti, la terra era molto asciutta, e rivoltarla troppo disperdeva quel poco di umidità che c’era. Si gettava allora il seme e dopo si arava, per mandare il seme sotto terra senza deprivare troppo di acqua il suolo. Ma, insieme, il racconto ci porta già un po’ in un’altra direzione. Le parabole, infatti, non vogliono spiegarci come si dovrebbe vivere. A partire da come si vive, invece, vogliono spiegarci come è Dio. E allora questo racconto, intanto, ci dice che Dio non si risparmia, non semina solo dove c’è garanzia di raccolto, ma getta ovunque. Non decide in anticipo che alcuni sono cause perse, ma affida il suo dono a tutti. Sappiamo poi che quel seme nella maggior parte dei casi sembra andare perso, perché viene mangiato quello che cade sulla strada, germoglia subito ma secca presto quello atterrato tra le pietre, nasce bene ma viene soffocato dai rovi altro seme. Una parte, però, cade in terra buona e rende molto. Oggi, con una cura più attenta e informata dei suoli e dell’irrigazione, in un campo coltivato a grano ogni spiga produce in media intorno a 40 chicchi (una spiga da sola ne produrrebbe di più, se non fosse circondata dalle altre). Nel Vicino Oriente antico si avvicinava a questa resa la valle del Nilo, mentre in Palestina un rendimento discreto andava intorno a un raccolto 9 o 10 volte superiore al seminato. Il senso del racconto è che là dove il seme riesce a crescere, la resa è in grado di ripagare abbondantemente il seme perduto. La spiegazione È Gesù stesso a commentare la parabola, in tutti e tre i vangeli che la narrano. E ancora una volta è semplice cogliere il senso delle immagini, ben chiarite: il seme come parola di Dio, che può cadere nei cuori di persone occupate da altro e risultare “inutile”, o di entusiasti senza profondità, dove secca presto, o di persone prese da troppe preoccupazioni, che quindi non sanno dare la priorità a ciò che è più importante, ma anche in cuori accoglienti che la fanno crescere. Non solo, è facile per noi immedesimarci ora in uno ora in un altro dei terreni in cui il seme cade. A colpirci, semmai, è la spiegazione introduttiva che Gesù offre sul motivo per cui parla alle persone in parabole. Dice che un messaggio più chiaro è riservato solo ai discepoli (Mc 4,10-12; Mt 13,10-14; Lc 8,9-10), mentre alle persone “di fuori” parla in parabole. A questo punto cita un passo di Isaia secondo cui il motivo ultimo di questo comportamento è di mettere gli ascoltatori in condizione di sentire ma senza capire (che era probabilmente il senso anche di Is 6,9-10, che pure del tutto chiaro non è). Perché una tale crudeltà? Potremmo pensare, appunto, a un Gesù che sadicamente vuole mettere davanti ai suoi ascoltatori un piatto nutriente, senza che abbiano la possibilità di assaggiarlo. Questa idea, però, sarebbe in contraddizione con tutto ciò
Forza e dolcezza
1. Introduzione In questa breve riflessione vorremmo rivisitare lo stile allamaniano-consolatino di approccio alla persona. Ovviamente, non si pretende di esaurire qui la tematica, ma solo di riprendere una riflessione, già iniziata in diverse sedi, ma che meriterebbe di essere rilanciata, ampliata e approfondita. Ci fermeremo a considerare brevemente alcune caratteristiche dello stile educativo dell’Allamano. 2. L’Allamano: una vita come educatore Il Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata passò praticamente tutta la vita coinvolto nell’educazione di sé stesso e degli altri: come studente in formazione (1856-1877), come formatore in seminario (1873-1880), come professore (1882-1884), come Direttore del Convitto ecclesiastico per due anni e formatore del clero diocesano (1882-1926), pastore o “pedagogo spirituale” (1880-1926), formatore iniziale e permanente di missionari (1901-1926), formatore iniziale e permanente di missionarie (1910-1926). Insomma, una vita a contatto con le problematiche, le sfide e la bellezza del compito educativo. L’Allamano ha senz’altro qualcosa da dirci. 3. Gli ideali proposti L’Allamano non ha mai fatto sconti sugli ideali: li ha proposti sempre, in modo chiaro ed inequivocabile. L’ideale missionario è per lui e per chi da lui fu formato il “denominatore unificante di tutta la formazione e di tutti gli aspetti della vita” che “pervade tutto, caratterizza e qualifica lo studio, gli interessi, le letture, le celebrazioni, gli esercizi della vita spirituale”: “Noi dovremmo avere per voto di servire le missioni anche a costo della vita”. Non fare sconti sugli ideali oggi (ma anche ieri) può non essere così facile né immediato. Eppure, la proposta chiara e inequivocabile di ideali/valori non negoziabili è un punto fondamentale dell’educazione, e non solo dell’educazione prettamente vocazionale, ma umana e cristiana in generale. Basti pensare a che cosa può capitare ad un bambino che si trova a crescere con educatori che non sanno dire chiari sì e chiari no in base a qualche criterio oggettivo, ma si barcamenano cercando di accondiscendere, di volta in volta, ai propri bisogni o ai bisogni dell’infante, o a qualche compromesso tra i due. Un terreno educativo di questo tipo si presta con facilità a coltivare squilibri di personalità, più che uno sviluppo di un sé sano e maturo. L’Allamano si rivolgeva ad aspiranti missionari, per cui l’ideale proposto assumeva i colori e modalità espressive adatte a chi aveva già fatto una scelta vocazionale precisa. Ma l’ideale missionario racchiude dentro di sé ed esplicita in modo singolare il seme dell’ideale di vocazione umana e cristiana che può essere proposto a tutti, qualsiasi sia il cammino di vita scelto. Si tratta della chiamata ad uscire da sé, a muoversi dalla propria posizione nel cosmo/universo per dilatare la visione, la comprensione, la capacità di amare e di fare. Questo ideale, mi pare, può e deve essere proposto anche oggi, in ogni cammino educativo cristiano, senza sconti. 4. Presenza e assenza Quanto appena detto ci rimanda ad una caratteristica peculiare dell’Allamano, ma anche dei suoi figli e figlie nell’approccio alla persona e ai popoli: la “presenza”. Non una qualsiasi presenza, ma una presenza, appunto, pedagogica, che sa cogliere e rispettare i ritmi di crescita dell’altro e sa “esserci” o scomparire a seconda dello stadio in cui l’altro si trova. Una presenza di chi non pretende di proporsi come salvatore dell’altro, nell’intento di risolvergli tutti i problemi, ma che nemmeno lo abbandona a se stesso con la scusa di un malinteso “rispetto”. Ciò implica una sufficiente ed esperiente conoscenza dell’umano e dello spirituale, che porta l’educatore ad una capacità di vera vicinanza ed intimità ed insieme di distanza e di riguardo per lo spazio dell’altro. In altre parole, una cosa è essere vicini, un’altra è ficcare il naso nelle faccende altrui. Una cosa è “esserci” per aiutare l’altro laddove ha bisogno e anche per imparare da lui, un’altra è aver bisogno di essere per forza utili all’altro. Una cosa è porsi accanto ed accompagnare, accettando di essere anche noi dei cercatori, un’altra è pretendere di sostituirsi all’altro o di avere tutte le soluzioni alle sue domande. Nell’Allamano, questo andirivieni tra vicinanza e distanza, presenza e assenza, tra sì e no, si manifesta anche nel suo tratto assieme soave e forte, caratteristica spesso riportata dai testimoni: “Come Fondatore e Superiore nostro, era impareggiabile, forte e soave nello stesso tempo. Si interessava di tutto e di tutti: scendeva anche ai più minuti particolari, e nello stesso tempo non era né pesante, né assoluto. Lasciava libera l’iniziativa delle Superiore subalterne…” “Il suo tratto [appare] sempre buono e paterno, ma riservato e contenuto” La presenza dell’Allamano potrebbe essere qualificata, in termini attuali, come “empatica”: egli possiede la capacità di sentire con l’altro, di intenerirsi, commuoversi, identificarsi con la persona; allo stesso tempo, possiede la capacità di distanziarsi dall’altro per coglierlo in modo più pieno e rispettoso della sua totalità. In questo modo, sa sfidare senza scoraggiare, perché il suo intervento non parte solo da un sentire emotivo, ma da un contatto più profondo e pieno con il vissuto altrui, il proprio e i valori che vive e propone, il tutto unificato nell’esperienza viva della relazione con Dio che gli dilata gli orizzonti dello spirito, del cuore e della mente, portandolo ad una sempre più articolata comprensione dell’umano e dello spirituale, perciò ad interventi educativi illuminati e sentiti come una benefica sfida alla speranza. “Nel correggere aveva molto tatto e bontà, e nello stesso tempo era forte e soave. Diceva poche parole, ma chiare e decise. Soprattutto non era mai scoraggiante, pur combattendo energicamente il difetto” Una missionaria racconta di un fatto che risale alla prima guerra mondiale, quando il nutrimento era scarso e il pane razionato: “due postulanti, entrate appena da qualche giorno, passando in panetteria, mi chiesero il pane varie volte dicendo che avevano fame. Per un po’ di volte mi prese compassione e gliene diedi, ma passando per caso il nostro venerato Padre dalla panetteria, gli raccontai la cosa chiedendogli come dovevo fare. Allora mi disse […]: «continua pure e darglielo, quando lo domandano, per un po’ di giorni, ma, adagio adagio, farai loro capire che non si può; ma non
Giuseppe Allamano nella vita dei suoi figli
Abbiamo chiesto a Missionari e Missionarie della Consolata: “Chi è Padre Fondatore per te?” Le risposte sono scaturite da cuori riconoscenti per la presenza, semplice, discreta, ma determinante, di Giuseppe Allamano nel cammino religioso e missionario di ciascuno. Giuseppe Allamano: ad quid venisti? Suor Gabriella Bono, missionaria della Consolata italiana, vive in Argentina: ricorda come il Fondatore chiedeva spesso alle giovani in formazione: “Ad quid venisti?” perché sei venuta qui? Un modo per ravvivare la risposta al dono della vocazione, una forma di rispetto per gli ideali e i valori grandi che queste giovani donne portavano nel cuore. Ascolta la riflessione di Suor Gabriella: Giuseppe Allamano: questo qui, non lo mollo più! Padre Giampaolo Lamberto, missionario della Consolata italiano, vive in Corea del Sud: racconta come da giovane, leggendo i pensieri dell’Allamano, ha sentito che il Fondatore era un compagno insostituibile nel cammino, che i suoi insegnamenti generavano armonia in lui e sono stati luce in ogni passo del cammino missionario. Ascoltiamo Padre Giampaolo: A cura dell’equipe di comunicazione per la Canonizzazione
I diari di Suor Gemma Ida
La toccante storia del piccolo Msafiri e delle preghiere accolte da Dio. Una storia dal Tanzania. Msafiri, significa viaggiatore ed è il nome di un caro bambino di 8 mesi e dal peso di 2,500 kg. che la mamma mi ha portato perché potessi guarirlo. Al primo momento dico: “Mamma, portalo all’ospedale, cosa posso fare io?” “L’ho già portato, mi risponde, ma il medico mi ha rimandato a casa perchè non sa cosa fare. Non c’è più nulla, nessuna medicina che lo possa guarire”. Signore, prego nel mio cuore, Tu lo risusciteresti subito, io cosa posso fare? In un baleno mi viene in mente un salmo e così pregai: “Se il Signore non costruisce la sua casa, invano si affaticano i costruttori, se il Signore non è a guardia della sua città, invano veglia il custode”. Perciò dissi alla mamma di ritornare ogni giorno all’ambulatorio che avrei provato con la medicina, ma che intanto: “Preghiamo il Signore e la Santissima Consolata, che sempre consolano coloro che a loro ricorrono con fiducia”. Iniziai una cura con anabolizzanti, latte e con tutto ciò di cui potevo disporre, ma nonostante ogni sforzo, il piccolo Msafiri, non dava segni di miglioramento. All’ottavo giorno la mamma mi disse che doveva ritornare a casa, abitava lontano e aveva altri figli che richiedevano il suo aiuto. Allora io osai fare a quella donna questa proposta: “Mamma, vedo che le medicine non servono per il tuo bambino, forse Gesù lo vuole in Paradiso , dille che glielo dai, diciamolo insieme…”. Non l’avessi mai detto, perchè la mamma di Msafiri, con una voce forte di chi reclama i suoi diritti di madre disse: “Cosa devo dargli, anche questo, quando su cinquem me ne ha già ripresi tre?”. Signore, che tasto ho mai toccato, ed intanto, piangendo, continuavo il mio lavoro. Passarono alcuni minuti, quando con voce fioca la mamma ruppe il silenzio pregando così: “ Signore, se proprio vuoi mio figlio, prendilo. Ti chiedo solo di metterlo in un posto dove non debba più soffrire, ha già sofferto troppo in questa vita”. L’offerta è fatta, preparo le medicine da portare a casa, saluto la mamma e il piccolo, dicendo a questo che quando sarà nel bel Paradiso preghi per i suoi cari, per la sua patria e si ricordi anche di me. Strano, il bambino era pagano come la mamma. Di solito battezzo questi bambini gravi, ma Msafiri non l’ho battezzato perchè pensavo che forse il Signore avrebbe accettato l’offerta della mamma, come accettò l’offerta di Abramo nel sacrificio del figlio Isacco e poi glielo avrebbe restituito? Non so, so solo che non pensai più a Msafiri anche perchè avevo avuto il trasferimento in un’altra missione e poi c’erano tanti bambini come Msafiri a cui pensare…. Si dice che solo le montagne stanno al loro posto. Passarono tre anni, fui rimandata di nuovo alla missione di Makamhako, missione dove ebbi l’esperienza che sto raccontando. Un giorno venne in ambulatorio una donna con un bel bambino tra le braccia ed uno di circa quattro anni per mano che teneva fra le manine un sacchetto di plastica con delle uova, e che mi salutava tutta sorridente. “Sorella, ti ricordi di me?” “No” risposi. Con meraviglia replica: “ Come, non ti ricordi di Msafiri, il bambino che un lontano giorno offrimmo a Dio Mgai, perchè sembrava che non ci fossero medicine che lo potessero guarire? Eccolo” Nello stesso momento il piccolo Msafiri, con un sorriso meraviglioso, mi si avvicina, mi consegna il sacchetto con le uova dicendomi: “Grazie, Mama, che mi hai guarito!” Non so cosa provai in quel momento. Abbracciai il piccolo e ringraziai il Signore che non lascia mai delusi chi a Lui ricorre con confidenza, fiducia e tanta fede. “Grazie Signore, aumenta la mia FEDE”. Suor Gemma Ida, mc
Non basta… guardare!
Qualcuno la chiama fiaba, altri leggenda, altri ancora la inseriscono nelle parole di saggezza dei popoli che abitano lungo il mare e gli oceani. In qualche volume viene riportata in una formula abbreviata, in altri più ampia. Ho scelto quest’ultima versione, perché cattura e fotografa la tipologia e le reazioni delle persone che compongono la variegata realtà delle società, anche di quelle che non dimorano lungo le coste. “Una notte, in una di quelle magiche spiagge lambite dall’Oceano, accade qualcosa di straordinario: un’alta marea eccezionale. Quando le acque si ritirano, la danza dell’Oceano lascia miriadi di stelle marine, dai colori più svariati e dalle forme più diverse. Le stelle marine private del loro ambiente naturale che le nutre e le protegge, sono destinate a morire. Gli abitanti del piccolo villaggio escono dalle loro case per recarsi al lavoro, a scuola, a far la spesa… vanno di fretta come ogni mattina. La vista delle stelle marine sulla spiaggia, però, per un attimo, arresta la loro fretta. Pian, piano, una folla di vecchi e bambini, donne e uomini, giovani e adulti si raccoglie e guarda stupita il mare. Un uomo, con un soprabito nero, l’intellettuale del villaggio, senza scendere in spiaggia, rimanendo sulla strada, comincia a domandarsi il «perché» di quel fenomeno. Parla di teorie, di fasi lunari e solari, di alta e bassa marea… Un piccolo gruppo si raccoglie intorno a lui: discutono, dibattono, ragionano… tutti con le mani in tasca! Intanto le stelle marine cominciano a soffrire l’assenza di acqua. Una donna s’incammina sulla spiaggia. Va avanti e indietro senza sosta e ripete a voce alta: “Sono tante, tantissime, troppe! Non posso salvarle tutte!” Intanto le stelle marine consumano le loro ultime energie. Un’altra donna la segue, ma subito si ferma e osserva incantata ora questa, ora quella stella marina. Si china e le scruta nei particolari, le descrive nei colori e nelle forme, decanta la loro bellezza e apprezza il loro splendore. Le sue mani sfiorano appena le stelle marine che continuano la loro agonia. Un gruppo di giovani scende in spiaggia, si avvicinano alle stelle marine e scelgono le più belle da prendere come souvenir. Le loro mani toccano le stelle marine, ma non per liberarle dall’arsura della spiaggia. Un uomo rallenta con il suo fuoristrada e mormora: “Non ho tempo da perdere, non posso fermarmi e vedere cosa succede… perché dovrei perdere tempo dietro a delle stupide stelle marine che si sono lasciate spingere sulla spiaggia?” Con le mani strette al volante accelera e passa oltre… e le stelle marine restano a soffrire sulla spiaggia. Tutti guardano, parlano, ragionano… nessuno fa nulla! Le stelle marine sono tante, troppe… non è possibile salvarle tutte… e allora non se ne salva nessuna! Nel frattempo, una bambina, dall’aria birichina, sfugge al controllo della mamma e raggiunge la riva: con le sue manine prende una stella e la getta nell’Oceano, poi torna indietro e ne prende un’altra, e un’altra ancora, e poi ancora. Va avanti e indietro senza sosta. Non riuscirà a ridare all’Oceano tutte le stelle marine: sono tante, troppe! Ma con le sue manine, mentre la folla dei grandi discute e si consulta, prende tempo e ragiona, ha riportato nel grembo dell’Oceano venti stelle. Molte sono già morte e molte moriranno, ma venti sono salve! Un bimbo, con la spontaneità dei piccoli, si unisce a lei: la loro impresa è impossibile, senza speranza…, ma adesso sono sessanta le stelle in salvo! Molte sono già morte e molte moriranno…, ma sessanta sono salve! Altri bambini si uniscono ai due pionieri e l’Oceano ha ripreso con sé cento stelle. Dopo qualche minuto sono duecento le stelle marine che giocano felici con le onde, loro amiche d’infanzia. Molte sono già morte e molte moriranno…, ma duecento sono salve!” Dalla storia alla vita Quante volte ci svegliamo al mattino e ci accorgiamo che sulla nostra riva, per restare nella metafora del racconto, mille stelle marine boccheggianti chiedono attenzione, esigono risposta, invocano decisione. Stanno in bilico sul bordo della nostra esistenza, adagiate sul perimetro della nostra vita. A volte sono situazioni che dribbliamo con astuzia, nella speranza di non doverle mai affrontare e altre volte sono difficoltà che ci illudiamo di nascondere nell’armadio delle buone intenzioni. A volte sono sogni che abbiamo chiuso nel cassetto e altre volte sono promesse che abbiamo dimenticato. A volte sono attese a cui non vogliamo tendere l’orecchio e altre volte sono impegni che preferiamo eludere. A volte sono relazioni faticose che abbiamo relegato in soffitta e altre volte sono perdoni che abbiamo accatastato nel tempo e non riusciamo più a regalare. A volte, le stelle marine sono talmente tante che non sappiamo da dove cominciare per rimetterle a posto: non sappiamo dove mettere le mani… e allora le teniamo in tasca! Questo accade nella vita quotidiana, nel lavoro, nelle relazioni interpersonali, nella vita sociale… non sappiamo da dove cominciare e, allora, preferiamo lasciare le nostre mani in tasca! La storia delle stelle marine, nella sua semplicità e immediatezza, interroga la nostra vita e le nostre scelte, le nostre relazioni, la nostra carità, il nostro impegno… Infine, questa storia evoca il Dio dei piccoli passi, invoca la fedeltà alle piccole cose, implora tenacia nella perseveranza. suor Maria Luisa Casiraghi
Chi è Giuseppe Allamano nella mia vita
Suor Cecilia Pedroza Saavedra e Padre Diego Cazzolato hanno risposto alla domanda: “Chi è Giuseppe Allamano per te?”. Suor Cecilia, Missionaria della Consolata colombiana, vive a Castelnuovo Don Bosco, “vicina di casa” dell’Allamano, ovvero della sua casa natale. Nella comunità di Castelnuovo svolge un servizio di formazione continuata per le Missionarie della Consolata. In questo video risponde alla domanda secondo la sua esperienza di relazione filiale con Padre Fondatore. Espande lo sguardo a tutta la famiglia religiosa: la santità dell’Allamano e delle prime Sorelle sono radici sane, garanzia per poter crescere anche noi in questo cammino di santità Padre Diego, Missionario della Consolata italiano, vive in Corea del Sud. Dai primi incontri con l’Allamano nel seminario minore lo ha sentito come il Fondatore, colui che ha avuto un’esperienza profonda e ha chiamato altre persone per poter portare avanti quest’opera di evangelizzazione ad gentes.
Gli ultimi anni di Giuseppe Allamano
In questa intervista, esploreremo gli ultimi anni della vita di Giuseppe Allamano, un periodo segnato da profonde sofferenze e separazioni che, tuttavia, hanno rafforzato il carisma da lui lasciato ai missionari e alle missionarie della Consolata. Guidati da p. Piero Trabucco IMC, ci immergeremo nel vissuto di Allamano, scoprendo come le sue difficoltà personali e il distacco dall’Istituto abbiano contribuito a modellare lo spirito e la missione della sua congregazione. https://youtu.be/659km1zFT5k
Un logo per la canonizzazione di Giuseppe Allamano
Mancano ormai due mesi all’evento tanto atteso della canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata. Per l’occasione è stato ideato un logo in varie lingue, che con linee e colori vuole comunicare la Santità del Canonico Allamano e il suo significato per la Chiesa di oggi. Il logo è stato realizzato da Suor Luz Mery, missionaria della Consolata, che ha raccolto diverse idee e proposte. Il volto di Giuseppe Allamano, sulla sinistra, è tratto da una foto celebre del sacerdote. Al suo fianco, stilizzato, il Santuario della Consolata, da cui tutto è partito: l’ispirazione della fondazione dei due Istituti, i valori fondanti del Carisma, la protezione e benedizione della Madonna Consolata; l’Allamano affermava: “Lei è la Fondatrice!” In alto, a destra: cinque persone stilizzate, unite in una danza: sono di diversi colori per rappresentare tutti i popoli che hanno accolto il Vangelo e quelli che ancora attendono l’annuncio della Buona Nuova. Il tutto è abbracciato da una striscia verde, che rappresenta la vita, in particolare la vita rigogliosa dell’Amazzonia, luogo in cui è avvenuto il miracolo attribuito all’Allamano, a favore di Sorino Yanomami. Infine, la frase: “Prima Santi, poi Missionari”, che era ripetuta da Giuseppe Allamano ai suoi giovani figli e figlie: non si può convertire le persone, diceva il Fondatore, se prima non si arde d’amore per Dio: non possiamo dare ciò che non abbiamo. Non possiamo parlare di Dio, se con Lui non abbiamo una relazione profonda e autentica. Equipe Comunicazione per la Canonizzazione
La schiava salvata da Dio
La storia di AGAR, la schiava egiziana, si inserisce in quella di Sara e di Abramo. Ma è anche una storia a sé, colmata di dolore, di fierezza e insieme di speranza. Storia attualissima di una donna che, in condizioni di inferiorità sociale assoluta, era infatti schiava, senza alcun diritto, ha saputo difendere la propria dignità e il proprio figlio. Possibilmente bruna, con i riflessi blu dei lineamenti degli egiziani originari, altera nel fisico anche se umiliata dalla condizione di schiavitù, Agar fa da contrappunto drammatico a Sara, la “principessa”, la padrona assoluta che potrebbe disporre della sua vita, come farà a un certo punto. Per molti anni, sotto la ricca tenda di Abramo, il dramma pende positivamente dalla parte di Agar e negativamente dalla parte di Sara. Agar, giovane, bella e piena di vita; Sara, pure bella, ma ormai sfiorita e sterile. Agar dopo aver giaciuto con Abramo ed essere rimasta incinta e prima ancora che Ismaele fosse nato (Gen. 16:1-4), diventa orgogliosa di sé, sente d’aver finalmente raggiunto la tappa più inverosimile della propria vita di schiava: quella di contare di più della padrona per il solo fatto d’essere, a differenza di lei, feconda e madre. Il Primo Testamento, come in tutte le storie dei popoli antichi, è pieno di questi casi di schiave che insuperbiscono e finiscono col dominare le padrone, ma occorre tener conto che questa umana e sgradevole storia è inserita nel libro di Dio, e dietro fatti non sempre edificanti, Dio, all’insaputa degli stessi protagonisti, tesse la salvezza dell’umanità secondo il proprio amore e la propria sapienza. Proviamo anche noi a fare una rilettura della nostra vita, una vita segnata, a volte, da eventi e/o situazioni difficili da collocare nel marco della nostra esistenza senza uno sguardo di fede… Certe situazioni lasciano segni indelebili a volte… come le cicatrici dei chiodi del Cristo Crocifisso che però alla luce dell’amore del Padre diventano i segni della risurrezione… Ma torniamo alla tenda di Abramo. Sara si lamenta immediatamente col marito dell’impudenza provocatoria della schiava: «Tu mi fai torto; io ti ho messo fra le braccia la mia schiava, ed essa, accorgendosi d’aver concepito, mi disprezza: il Signore giudichi fra me e te» (Gen. 16: 5). Sara si diminuisce al livello di Agar: eccole ambedue gelose l’una dell’altra, tese ormai a escludersi a qualunque costo. La gelosia chiude la possibilità di giudicare con rettitudine e impedisce un valutazione retta dei fatti. Quante volte le persone si trovano in situazioni simili e non sanno gestire gli eventi, non sanno dare un nome ai sentimenti e preferiscono tagliare corto, rompere il rapporto o addirittura spezzare una relazione di amicizia e familiarità: Non sappiamo dare un il nome vero ai nostri sentimenti per questo siamo testimoni di tante tragedie nella nostra società! Ora, in una situazione del genere è concepibile che il peggio toccasse alla schiava, a colei che, anche per legge, era priva di ogni diritto. Abramo amava Sara; inoltre non poteva difendere giuridicamente Agar, nel contesto del diritto e delle usanze del tempo. Con docile remissività, accetta le scelte di Sara nei riguardi di Agar. Risponde: «Ecco, la tua schiava è in tuo potere, fa di lei quello che ti piace». Non sappiamo cosa abbia fatto la “principessa” alla schiava umiliata, si sa, semplicemente, che “la maltrattò tanto che quella si allontanò”. Soltanto il fermo intervento dell’Angelo del Signore e la di lui promessa: «Io moltiplicherò grandemente la tua posterità che, da quanto sarà numerosa, non potrà essere contata», con la precisazione “Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio al quale porrai nome Ismaele, perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione. Egli sarà come un onagro: le sue mani contro le mani di tutti, e le mani di tutti contro le mani di lui: egli abiterà in faccia a tutti i suoi fratelli», convinceranno Agar al ritorno alla tenda di Abramo (Gen. 16: 6-18). Purtroppo, e lo costatiamo tutti i giorni, la risposta alle situazioni difficili è la violenza. Ci sembrerebbe che la violenza (quella di Sara) o la ribellione (quella di Agar) siano la risposta logica al male subito. Eppure Gesù ci ha insegnato un modo diverso di risponde al male ed è quello del perdono, della mansuetudine, della non-violenza. Questo non è debolezza, ma al contrario è la forza dell’amore che trova in se l’energia per guardare l’altro con gli occhi e il cuore colmo di compassione. Se tutti facessimo così il nostro pianeta sarebbe un Paradiso anticipato! Ma nonostante la promessa dell’Angelo, l’illusione e la speranza durano poco. Appena nasce Isacco, il figlio legittimo, il sereno scompare. L’incidente si verifica il giorno stesso in cui il piccolo Isacco viene svezzato: Abramo, per festeggiare il divezzamento, ha indetto un grande convito. Davanti a tutta la gente, però, Ismaele, più grande e già «feroce», come l’angelo l’aveva definito prima ancora che nascesse, si mette a prendere in giro il fratello più piccolo e debole. Sara scatta e chiede ad Abramo di allontanare la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non deve essere erede come il figlio Isacco». A queste parole Abramo sente dispiacere. Lui ama ambedue i suoi figli, ma Sara non deflette, e Dio gli rivela che dove la durezza semina ingiustizia, Egli saprà seminare il riscatto e la consolazione. Allora Abramo si piega a cuore stretto. Ecco Agar di nuovo nel deserto, sola con il suo ragazzo. Il pane e l’acqua dell’otre finiscono presto. Il bambino ha fame e sete, forse morirà. Agar si dispera, però Dio non si dimentica di lei e interviene: “E Dio fu con il fanciullo che crebbe ed abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco. Ismaele abitò nel deserto del Páran e sua madre gli prese una moglie del paese d’Egitto” (Gen. 21: 8-21). Ismaele sarebbe diventato il capostipite del popolo del deserto. Come la sua padrona Sara, anche Agar ha sofferto. Il suo destino di schiava si è riscattato e compiuto nella vocazione del figlio. Così anche lei, come Sara
Missione ed evangelizzazione inculturata
Suor Anélia, missionaria della Consolata in Guinea Bissau, parla della missione e del suo servizio di formazione per un’evangelizzazione inculturata
Il male in mezzo a noi
Forse nella storia della Chiesa non esiste un capitolo biblico dalle conseguenze più pesanti che il terzo della Genesi. E non sempre, nell’usarlo, si è rispettato il testo di partenza. Può valere la pena di riprenderlo. E questo da dove esce? Ricapitoliamo la situazione: i primi capitoli della Genesi presentano l’umanità nelle sue caratteristiche di fondo, e all’inizio abbiamo l’uomo e la donna che vivono in un giardino, nella piena comunione con Dio e nell’armonia tra di loro («Entrambi erano nudi, ma non ne provavano vergogna»: Gen 2,25). In questa situazione qualcosa interviene a rompere l’idillio. «È forse vero…? Ma non è che in verità…?». La formulazione della domanda dice tanto. Infatti il serpente, nella sua prima domanda, in realtà sbaglia, in quanto ipotizza che Dio abbia vietato di cibarsi di tutti gli alberi, e la donna lo corregge. Ma il serpente suggerisce che il motivo vero della proibizione non sia il bene dell’uomo, ma il mantenere l’uomo distante da Dio. Là dove tutto sembra parlare della bontà di Dio, il serpente lascia intendere che sotto ci sia l’inganno. Il problema non è tanto la disubbidienza, quanto la sfiducia. L’uomo smette di fidarsi di Dio. La Genesi lascia intendere che questa sia la “colpa” di fondo dell’uomo. Non tanto qualche peccato (che semmai ne sarà la conseguenza), quanto il diffidare. “Se Dio mi dice così, è perché ha un suo interesse, che non coincide con il mio. In realtà Dio mi vuole fregare”. Lo sguardo di un cristiano può amaramente sorridere di questa sfiducia di fondo, ricordando che ciò che in Gesù si promette all’uomo è esattamente di diventare come Dio, non però come frutto di un furto, ma di un dono ricevuto. Che fa Dio? La maledizione Di fronte alla sfiducia, che faremmo noi? Romperemmo la relazione. È ciò che Dio esprime parlando di “maledizione”. Maledire qualcuno, per Dio, significa esprimere il suo rifiuto di rapportarsi con lui. E, come ci potremmo attendere, Dio rompe i rapporti. Dapprima con il serpente, il quale non è chiamato per nome e si presenta più come un simbolo che come un individuo. È il simbolo del male, della sfiducia, del sospetto. Rispetto al serpente, Dio in tutta severità esprime la sua maledizione. A pensarci bene, però, non si tratta di una cattiva notizia. La maledizione contro il simbolo del sospetto, infatti, dice che Dio con il male, con la sfiducia, non ha intenzione di entrare in rapporto. Non importa che Dio sia stato sfiduciato, lui non risponde con la sfiducia. Ma la riflessione della Genesi va oltre: «Porrò inimicizia tra la tua stirpe e la stirpe della donna». Chi ha scritto queste pagine ha appena detto che crede che l’uomo, comunque, sia nemico del serpente. L’uomo non è fatto per la sfiducia, per il male, neppure oggi, neppure nella storia che viene dopo Genesi 3. E l’uomo non solo resta nemico del male: «Questa (la donna? la stirpe della donna? in fondo, comunque, entrambe) ti premerà la testa, e tu le premerai il calcagno» (Gen 3,15). C’è lotta e non si dice chi vincerà, ma non si può negare che la posizione del serpente sia peggiore: meglio rischiare un morso al piede, che di sentirsi schiacciare la testa. Insomma, non solo l’uomo rimane buono e nemico del male, e probabilmente vincerà. Una donna adulta Poi Dio passa a sgridare la donna. Ma, sorpresa, non si parla di maledizione! Dio si rifiuta di rompere il suo rapporto con la donna, nonostante la sfiducia che si è visto riservare. E la prima delle due parole che Dio rivolge alla donna, poi, è particolare: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli» (Gen 3,16). A prima vista, si parla solo di punizione e di sofferenza. Solo che… Solo che gli scritti non nascono mai fuori da un contesto culturale, che fa loro da sfondo e dà loro senso. Nel contesto culturale di chi ha scritto la Genesi, la donna non aveva autonomia, era proprietà del padre prima e del marito poi, e guadagnava dignità e affetto solo quando metteva al mondo un figlio maschio. “Condannare” la donna ad avere figli, insomma, non suonava affatto come una condanna, anzi come la sua realizzazione (se ho molti figli, con tutta probabilità ce ne saranno anche di maschi…). Certo, si dice il male, perché il dolore del parto non è un bene. Solo che in tutta la Bibbia si cita il parto come l’esempio di un dolore che serve, che è utile, addirittura che si dimentica, siccome il bene cui dà origine è così grande. Insomma, sembra proprio che Dio abbia in qualche modo stimolato la donna a diventare adulta, ad uscire dall’ingenuità dell’infanzia e a scoprire che nel mondo al bene è mescolato il male. Ma anche a credere che il male ha la peggio, è meno importante, passa in secondo piano. E poi Dio continua a parlare: «Verso il tuo uomo sarà il tuo desiderio, ma lui ti dominerà» (Gen 3,16). Viene da interpretare questa frase secondo lo stesso schema: il desiderio della donna verso l’uomo è buono, è bello. Il problema è che l’uomo risponde con il dominio e non con il desiderio. Ma, sul modello della prima parola, quella sulle gravidanze, viene da pensare che comunque anche questo male non avrà la meglio sul bene. L’ascolto della parola detta ad Adamo confermerà questa ipotesi. Anche l’uomo, nel suo piccolo… Anche l’uomo ha mangiato del frutto, ha diffidato di Dio. Anche a lui Dio si rivolge, e stavolta torna la parola di maledizione: «Maledetto il suolo per causa tua» (Gen 3,17). Non viene maledetto l’uomo, ma il suolo. Dio rompe i rapporti con la terra, e se l’uomo vorrà porre la terra in relazione con Dio, dovrà fare da intermediario. Ma, di nuovo, Dio si rifiuta di interrompere il suo rapporto con l’uomo. E, sul modello della prima parola alla donna, lo condanna a ottenere con sudore il suo pane dalla terra. Ma qualunque essere umano, in tutta la storia, ha sempre ritenuto che riuscire ad ottenere dalla terra