L’iniziativa di un missionario porta a nuovi orizzonti. Trova subito le condizioni per una missione «ad gentes». Poi la presenza si espande. Ma la crisi socio economica in cui versa oggi il Paese interroga. L’esperienza dell’Istituto Missioni Consolata in Venezuela comincia nel 1971, grazie all’iniziativa di padre Giovanni Vespertini. Vespertini era in missione in Colombia ma, stanco e in difficoltà, decise di recarsi in Venezuela e prendere contatti con alcuni vescovi. La risposta dell’episcopato del Paese fu molto positiva, tanto da indurre i missionari della Consolata della Regione Colombia a inviare altri sacerdoti e stabilire una comunità nella diocesi di Trujillo. Erano i primi anni dopo il Concilio Vaticano II, quando, su suggerimento del Capitolo del 1969, ovunque nell’istituto si studiavano possibilità di aprire nuovi campi di lavoro missionario, attraverso la costituzione di piccoli gruppi. I superiori accolsero la proposta della Colombia e nel 1974 iniziarono a inviare personale. Tra i primi ci fu padre Francesco Babbini, che sarebbe rimasto un missionario emblematico del Venezuela. Una prima riflessione che sorge è che, talvolta, le nuove aperture in Paesi sconosciuti sono fatte dopo grandi discernimenti, ma non sempre. Altre volte, invece, l’indicazione te la dà la vita, un qualche malessere, il bisogno di andare altrove. E ancora, spesso aspettiamo sconvolgimenti e cambiamenti fatti da masse, ma la storia ci insegna che a volte basta una persona che crede in qualcosa, e che inizi a fare dei passi, e da lì cambiano le cose. Popoli indigeni e afro Nel 1982 la presenza di IMC in Venezuela assunse il nome di Delegazione e fu dedicata alla vergine di Coromoto. Come istituto ad gentes, l’opzione fu da subito quella dei popoli indigeni. Così le prime missioni furono nella Guajira, la striscia di terra al confine con la Colombia, nelle tre comunità di Guarero, Paraguaipoa, Sinamaica. Il lavoro dei missionari diede vita a numerose piccole comunità. Terminata quell’esperienza una decina di anni dopo, i missionari furono sollecitati per una nuova missione tra i Warao, il popolo delle canoe, nel delta dell’Orinoco. Iniziato negli anni 2000, il lavoro tra loro continua ancora oggi. Il secondo pilastro dell’intervento IMC in Venezuela è l’accompagnamento degli afrodiscendenti. Nel 1986 fu aperta, tra queste popolazioni, una comunità a Barlovento. Occorre dire che gli afrodiscendenti del Venezuela sono piuttosto diversi da altri con cui i missionari lavorano in America Latina. Qui è difficile ricavare qualcosa, essere significativi, anche dopo tanti anni di presenza. In Colombia, ad esempio, gli afro portano avanti una ricerca identitaria, culturale. In Venezuela si tratta di gruppi che vivono in zone periferiche. Esercitano il controllo del territorio e, con le loro bande, fanno entrare solo chi vogliono. La situazione è dura. Sono quasi gettizzati. Si fa fatica a riunirli e a camminare con loro. Gli sforzi di promozione umana sono difficili. È un terreno abbastanza arido. Il merito dell’istituto è quello di essere lì con continuità da 40 anni a condividere un cammino missionario fatto di quotidianità. Con gli ultimi delle periferie Dal 1999, inoltre, i missionari si interessarono anche alle periferie povere delle grandi città. Così nacque l’accompagnamento della comunità di Carapita. Si tratta di una baraccopoli formata da un impressionante alveare di mattoni, lamiere e cartoni, dove le abitazioni poggiano l’una sull’altra, fino a raggiungere la sommità della collina. Le strade, poche e strette, si inerpicano su per la montagna, tra strapiombi mozzafiato. In molti luoghi si può andare solo a piedi. Qui vivono 100mila persone soggette a ogni sorta di stenti e potenziali vittime di ogni tipo di violenza. Questo habitat pone svariate sfide al lavoro pastorale: mancanza di spazio per strutture parrocchiali; eterogeneità del tessuto umano quanto a provenienza e nazionalità; pochi i giovani che frequentano la chiesa; molta violenza, droga, assenteismo nelle iniziative pastorali. L’ultimo pilastro della presenza IMC in Venezuela è l’animazione missionaria e vocazionale. Nacque presto, come naturale espressione del carisma missionario dell’istituto e come dono alla chiesa venezuelana. I frutti sono stati molteplici: vocazioni di speciale consacrazione al servizio della Chiesa locale e anche dell’istituto; laici che hanno accolto la dimensione missionaria dentro la loro specifica vocazione laicale nelle loro comunità cristiane, non disgiunta anche da servizi temporanei alle chiese dell’Africa; parrocchie e seminari sensibilizzati a un nuovo stile di evangelizzazione. Il dubbio Nel desiderio di recuperare l’ad gentes originario, fatto cioè di ricerca dei «non cristiani», alcuni missionari hanno iniziato, alcuni anni fa, a riflettere se fosse giunto il momento di lasciare il Paese per andare altrove. Anche la crisi socio politica, oramai acuta nel Paese, portava in questa direzione. La missione in Venezuela si era anche fatta una cattiva fama tra i nuovi missionari, per cui i seminaristi preferivano non andarci. Proprio per queste difficoltà si è invece pensato che non era il momento di lasciare, ma piuttosto di rimanere come segno di consolazione. Questa si esprime anche attraverso a una comunità aperta. Come dimostra l’attività di accompagnare i poveri per le strade: c’è un gruppo di giovani che sabato e domenica vanno nei quartieri a portare cibo e consolazione agli abbandonati. È un’esperienza molto forte. Nel 2018 i missionari presenti in Venezuela hanno scritto una lettera a tutti i confratelli nella quale ricordano la crisi che il Paese sta vivendo ma ribadiscono che «in Venezuela, la missione di consolazione e liberazione è oggi più necessaria che mai», e dichiarano: «Siamo disponibili ad accogliere qualsiasi giovane in formazione che desideri fare una esperienza missionaria in Venezuela e fare qui i suoi studi di specializzazione». Voglio concludere citando una frase di san Francesco, che calza con la presenza «piccola», perché non numerosa, dei missionari della Consolata in Venezuela: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? […] Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere a servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore». Padre Stefano Camerlengo, imc MONDO ALLAMANO: le missionarie e i missionari della Consolata sono presenti in 35 paesi di quattro continenti: Africa,
L’alleanza del cuore: quando Dio rilancia l’amore tradito
Per una volta, abbiamo chiesto di tenere insieme la riflessione del mese scorso e quella di questo mese. In entrambi i casi ci concentriamo sul profeta Geremia. Là eravamo andati a rileggere il capitolo 20, tormentato e straziante, con il profeta che si rammaricava per ciò che doveva annunciare e che si riprometteva di tacere, ma senza riuscirci. Un profeta che si scopriva in contrasto con Dio, che sperava di non ascoltare più. Quella tristezza e angoscia lasciano tuttavia lo spazio a un sogno ben diverso, pochi capitoli più in là, in quelli che sono il cuore del messaggio di Geremia. Il contesto Geremia vede la distruzione del suo popolo, del tempio, della città santa. Viene chiamato da Dio ad accogliere questa catastrofe come un bene, come il volere divino. È lo stesso profeta a ribellarsi a volte a questo annuncio così duro. Dalla distruzione, però, emerge un barlume di bene, che progressivamente si fa più grande. La sorte del popolo non è la morte, la sua distruzione non segna la fine. Nella parte centrale del libro, la più importante, Geremia invita i deportati a cercare il bene del territorio nel quale sono stati deportati, a comprare case ed abitarle, a riprendere a vivere. E intravede un futuro in cui Israele sarà ricondotto alla sua patria, «liberandolo dalle mani di uno più forte di lui» (Ger 31,11). Con uno scarto umanissimo, delicato e poetico, Geremia ritorna ad evocare il pianto, che dice di sentire da Rama, la località in cui si immaginava fosse morta Rachele, madre di Giuseppe e di Beniamino, ossia i capostipiti del cuore del popolo (da Giuseppe nasceranno Efraim e Manasse, e quelle tre tribù spesso sono citate come riassunto dell’intero popolo ebraico). Ma l’evocazione così delicata e accennata del pianto sui propri figli viene smentita dalla promessa che «c’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno nella loro terra» (v. 17). Il migliore sogno profetico Le parole si fanno sempre più coraggiose, Geremia sogna un ritorno di tutti i discendenti di Giacobbe nella loro terra, per abitarla nella pace e nell’abbondanza: «Verranno giorni nei quali renderò la casa di Israele e la casa di Giuda feconde di uomini e di bestiame» (v. 27). «Come ho vegliato su di essi per sradicare e per demolire, così veglierò su di loro per edificare e per piantare» (v. 28). Un Dio che ritorna a prendersi cura del benessere dei suoi figli, la promessa di una restituzione nazionale che è anche di rapporto con il loro Signore. È un sogno diffuso tra i profeti, che quell’armonia tra Dio e il suo popolo che si immaginava ci fosse stata nei tempi antichi (benché anche questa fosse un’illusione), possa tornare a esistere senza angosce, senza paure, in piena serenità. È per questo sogno che diversi profeti sono stati capaci di uscire dalla logica di una retribuzione per clan, dove contava innanzi tutto l’appartenenza al gruppo, secondo i modi di pensare dell’antica cultura semita. Era stata questa la spiegazione che molti ebrei si erano dati della distruzione: “Noi non siamo peggiori dei nostri antenati, ma sono loro ad aver peccato allontanandosi da Dio, il quale oggi punisce il nostro gruppo”. Peccato che questa interpretazione rinunciasse al valore delle scelte del singolo, riconducesse tutto ad un ambito tribale che non è personale, non è propriamente biblico pur trovandosi molto nella Bibbia. Sono stati quindi diversi i profeti che si sono sentiti in dovere di correggere quell’impostazione: «Non si dirà più: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli hanno sentito il tannino”» (v. 29). Ognuno sarà responsabile per le proprie azioni. Era già tanto: il ripristino dell’antico popolo, la responsabilità affidata a ognuno. Molti profeti arrivano fin qui, ed è già moltissimo, è confermare la fedeltà divina nonostante la catastrofe, e valorizzare la dimensione del singolo. Ma Geremia va oltre. Un sogno ulteriore «Ecco verranno giorni…»: così Geremia introduce una dimensione ulteriore. Guarda il futuro, lo legge dentro il cuore di Dio, e sogna insieme a lui. Geremia, o Dio, sogna un’alleanza nuova (v. 31), diversa da quella conclusa ai tempi di Mosè. L’affermazione è già pesante. La tradizione ebraica insiste molto sulla memoria come fondamento per il futuro: vale la pena fidarsi di Dio perché si è mostrato affidabile in passato, con una dinamica che è di relazione personale, in quanto è con gli amici che mi regolo in questo modo, non con un trattato. Eppure Geremia ha il coraggio di stravolgere questa convinzione: l’alleanza con il popolo sarà qualcosa di nuovo. Il vecchio accordo è stato violato dagli uomini, ma Dio ha intenzione di rifarne uno nuovo, diverso. Di fronte alla rottura della fiducia, Dio decide di non rispondere con giudizio o sfiducia, ma di rilanciare, come un innamorato che, di fronte al tradimento del partner, sceglie di non rompere la relazione né di ritornare come prima, come se non fosse successo niente, ma di rilanciare con qualcosa di più radicale e profondo. Piero della Francesca, Capella Bacci 1452 – Profeta Geremia L’alleanza sognata da Dio Il nuovo patto sognato da Dio non viene spiegato nei contenuti, ma nella modalità: un’alleanza «scritta sul cuore» (v. 33). Per noi il cuore è la sede dei sentimenti, a volte in lotta con la testa, che è la razionalità. Per il mondo semita la sede delle emozioni sono invece le viscere (alla lettera, “l’utero”). Il cuore è il luogo in cui la passione media con la ragione, e i due si mettono in dialogo per arrivare a delle decisioni. È il luogo più equilibrato dell’essere umano, nella convinzione che non sia sufficiente la razionalità, ma che anche l’emotività, da sola, non aiuti a vivere bene: c’è bisogno che i due elementi si ascoltino, si parlino, decidano insieme. Una legge divina scritta nel cuore lascia pensare a un essere umano che sa come restare fedele a Dio. Non per istinto o per ragionamento, ma nel modo più umano possibile, che pone insieme passione e intelligenza. Là dove l’uomo è
Santità e lo spirito di preghiera
Verso il Centenario della nascita al Cielo di San Giuseppe Allamano, i suoi figli e figlie si radunano attorno a Lui per ascoltare ancora una volta i suoi insegnamenti. Oggi sullo spirito di preghiera “Un giorno, un giovane andò a cercare lavoro tra i boscaioli. Il responsabile, dopo aver controllato l’aspetto fisico del giovane, ha subito accettato e gli ha detto di tornare il giorno seguente. Nel primo giorno di lavoro, il giovane abbatté molti alberi. Nel secondo giorno la produzione è stata inferiore, pur avendo messo lo stesso impegno e dedizione. Nel terzo giorno, il giovane si sforzò ancor di più, ma tagliò di nuovo meno alberi… Il responsabile, notando il calo di prestazioni, gli chiese quando fosse stata l’ultima volta che aveva affilato la sua ascia. Il giovane confessò che era così impegnato nel suo lavoro che non aveva avuto il tempo di affilarla…” Il mondo di oggi è veloce e frenetico, e la maggior parte delle volte non ci permette di fermarci per riprendere le forze, il che ci porta ad abbandonare gli aspetti più importanti della nostra vita missionaria. La preghiera è la scure di cui ci racconta la storia e che dobbiamo tenere sempre affilata per aiutarci in tutto ciò che facciamo nella nostra vita. Papa Francesco ci ricorda che la preghiera non può essere una preghiera qualsiasi, perché “la preghiera è come l’ossigeno della vita, serve ad attirare a noi la presenza dello Spirito Santo che ci spinge sempre avanti”. Così, la preghiera è il mezzo privilegiato attraverso il quale tutti noi entriamo in contatto con Dio, permettendoci di raggiungere una vera familiarità con Lui, così da poter ripetere con San Giovanni: “Ciò che era fin dal principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita…, che noi abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1,1-3). San Giuseppe Allamano definisce la preghiera come una priorità: “Sì, sì, lavorare; Ma la preghiera è più necessaria di ogni altra cosa. Prima dobbiamo santificarci, prima pregare, poi fare del bene agli altri. Dobbiamo amare la preghiera! Beati voi se vi sforzerete di progredire sempre di più nella vita interiore, con spirito di raccoglimento e di preghiera”. Sì, pregare, pregare bene! Allamano non solo ci incoraggia a pregare molto, ma sembra anche volerci insegnare come farlo bene! Questo suo insegnamento nasce dalla sua profonda esperienza di incontro con Gesù nella preghiera. È davvero curioso come descrive la responsabilità che dobbiamo avere quando preghiamo: “Dobbiamo pregare bene, perché pregare male è un insulto al Signore, quindi è meglio non farlo […] perché è mancanza di rispetto al Signore. Questo non significa che non dobbiamo pregare quando non ne abbiamo voglia… Significa che dobbiamo cambiare il nostro atteggiamento in modo che la nostra preghiera sia utile e fruttuosa. Ci sono tante proposte e percorsi di spiritualità diversi che ci permettono di pregare in modo efficace, ma per fare bene ogni preghiera, San Giuseppe Allamano è molto chiaro e indica alcune strade che possono aiutarci. Prima di pregare, dobbiamo prepararci, il che significa che dobbiamo allontanare dai nostri pensieri tutto ciò che ci distrae e ci impedisce di essere attenti. “La presenza di Dio impedisce la dissipazione e tiene interconnesse le pratiche della preghiera, che altrimenti sarebbero come oasi, al di fuori delle quali tutto è sterile”. È importante prestare attenzione alle parole che pensiamo in modo che non vengano dette in fretta: riflettendo sul significato delle parole, promuoveremo una riflessione interiore preparatoria. È necessario essere in sintonia e concentrati su Dio: “Pensa che parli con il Signore; fate bene le vostre preghiere, di cuore”. Per pregare bene è necessario un atteggiamento di rispetto: “In una posizione di rispetto, senza preoccuparsi di nient’altro”. Tuttavia, questo non significa che dobbiamo interrompere ciò che stiamo facendo per pregare, perché “si può pregare e lavorare, purché il lavoro ci permetta di pensare e che le preghiere non siano strettamente obbligatorie. Anche Gesù pregava mentre lavorava nella sua bottega di Nazareth”. Preghiera infallibile Nell’opera Vita Spirituale di Giuseppe Allamano, troviamo le quattro condizioni che rendono la nostra preghiera infallibilmente ricambiata: La preghiera continua come via per uno spirito di preghiera. San Giuseppe Allamano parlava sempre dell’amore per la preghiera continua, perché non fosse una preghiera vuota, ma che ci portasse ad acquisire un vero spirito di preghiera perché “la preghiera ci eleva alla presenza di Dio e ci mette in dialogo con Lui”. La preghiera continua non è altro che l’espressione della crescita della nostra fede e la prova efficace che non possiamo vivere senza la presenza di Dio, e di conseguenza ci spinge a realizzare i piani di santità che Egli ha per noi. Perché quale ragione dovremmo fare della nostra vita una preghiera continua? Perché è la preghiera che ci porta a dire con san Paolo: io vivo, ma non sono più io, è Cristo che vive in me. Vivo la mia vita presente nella carne, nella fede nel Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Ci sarebbe molto altro da riflettere sulla preghiera come pilastro fondamentale della santità dell’Allamano, e su come possiamo rivestirci dello Spirito di Preghiera. Speriamo che questa riflessione non sia la fine, ma possa segnare l’inizio di un cammino interiore che ci porti a credere che “abbiamo bisogno di pregare molto, appunto, perché siamo missionari”. Per la riflessione personale Scarica la scheda:
Il Magistero di Papa Francesco e il cammino delle Missionarie della Consolata
Il contributo del Sommo Pontefice Papa Francesco alla riflessione e alle scelte concrete che l’Istituto Suore Missionarie della Consolata ha realizzato in questi anni di Pontificato.
Venerdì Santo sulle Ande
In America Latina il Venerdì Santo è giorno festivo: è un momento per celebrare con molta intensità la morte del Signore Gesù. Ogni cultura locale dimostra una sensibilità e un modo proprio di accompagnare Gesù nel momento del dolore e della morte. Oggi vi raccontiamo come lo vive il popolo Quechua a Vilacaya, in Bolivia. A Vilacaya, villaggio andino nel Sud della Bolivia, il Venerdì Santo è vissuto in modo molto intenso, con tradizioni antiche che parlano al cuore e spiegano con gesti semplici il mistero della fede cristiana. Possono sembrare strane e lontane, ma conoscendole a fondo, dimostrano molta sapienza. E un substrato di storia, quella dell’incontro del Cristianesimo con la cultura locale. DIGIUNO E LAUTO PRANZO Una tradizione presente in tutta Bolivia è il ricco pranzo del Venerdì Santo. Questo può stridere con la tradizione europea del digiuno e astinenza che caratterizzano questo giorno, ma è un’usanza presente anche in altre regioni, come il Nordest del Brasile, e nasce dal fatto che ai tempi della colonia, i signori europei, che rispettavano il digiuno del Venerdì Santo, davano i loro avanzi ai servi e schiavi, che per un giorno mangiavano riccamente. Anche questo è frutto della Redenzione… A Cochabamba si preparano 12 piatti, ricordando gli apostoli e Gesù nell’Ultima Cena. In Vilacaya sono tre i piatti, sempre gli stessi: una minestra a base di zucca, un piatto a base di sardine, un dolce a base mocochinche, che è la pesca essiccata, fatta cuocere con cannella e zucchero. I vicini condividono il cibo tra loro, anche questo è un bel gesto di comunione. ACCOMPAGNARE GESÙ MORTO Dopo il pranzo uomini e donne preparano una coperta di fiori (la Quaresima è l’unico tempo dell’anno in cui, grazie alla pioggia, crescono i fiori in Vilacaya) che viene posata sul “Cristo morto”, una statua antica di Gesù deposto dalla croce, adagiata in una portantina di legno. In particolare le donne vegliano attorno a questa immagine sacra, allo stesso modo con cui vegliano le persone morte durante il funerale. Cantano preghiere in forma litanica in quechua antico: sono gli elementi della fede cristiana trasmessa dai primi evangelizzatori, e tramandata oralmente fino ad oggi, per ben 500 anni! Dopo la liturgia della Passione del Signore, la comunità esce per le strade del villaggio, caricando la pesante portantina, con a fianco le statue di San Giovanni e dell’Addolorata che, secondo il Vangelo di Giovanni (letto durante la liturgia), erano ai piedi della Croce. Si tratta di un vero e proprio corteo funebre, che termina quando è già sera, con il ritorno in chiesa. UN DIO VICINO, PERCHÉ CONOSCE IL DOLORE L’origine di queste tradizioni risale alla spiritualità della Spagna del Cinquecento, alcune espressioni sono ancora vive nella penisola iberica al giorno d’oggi. In America Latina ritualità popolare attorno a Gesù sofferente sono numerose e intense: le statue del “Giusto giudice” rappresentano il Gesù dell’”Ecce homo”, presentato da Pilato e condannato dal popolo. La gente prega davanti al “Giusto giudice” quando ha problemi con la giustizia. Ci sono molti Crocifissi che sono considerati miracolosi e sono mèta di pellegrinaggi. Nella cultura contadina quechua si prega davanti alle immagini del Crocifisso chiedendo un buon raccolto (il tempo della Pasqua coincide con il tempo della raccolta dei frutti della terra), per questo la Croce è decorata con fiori e frutti: è un’immagine potente, che parla di morte e vita, proprio come il Mistero della Pasqua. Nessuno più del contadino sa che “se il chicco non cade in terra e muore, non porta frutto”. Gesù è il chicco di frumento che muore e rinasce a nuova vita! Un Dio così vicino, che sa cosa vuol dire il dolore e la fatica della vita. Per un popolo così sofferto come quello andino, il Gesù del Venerdì Santo è un compagno di strada da accompagnare fedelmente nell’ora della sua morte. Suor Stefania, mc
Osea: una storia d’amore e profezia
Un Dio inflessibile? Il libro del profeta Osea ci pone davanti a una presentazione che può spiazzarci. Prima tre capitoli in prosa, che raccontano la storia matrimoniale del profeta, e poi undici capitoli in poesia che sembrano poco comprensibili e comunque non avere nulla in comune con quella che finiamo con il ritenere una (bizzarra) introduzione biografica. Ma è davvero così? Un matrimonio sfortunato? «Va’, e prenditi per moglie una prostituta, perché il mio paese continua a prostituirsi» (Os 1,2). Il libro di Osea si apre così, ed è un inizio strano, indubbiamente. La tradizione ebraica, come peraltro molte altre, è ossessionata dalla purità della discendenza, perché chi eredita la benedizione divina sulla terra ne abbia davvero diritto. Prendere in moglie una prostituta sembra davvero una follia… La frase inizia però subito a tradire la questione: non si parla solo del profeta, quanto anche del popolo ebraico e di Dio. Il profeta è chiamato a mettere in scena ciò che ha fatto e fa Dio, nella sua vita umana parla di Lui. I nomi che Dio lo invita a dare ai figli, in effetti, sono particolari. Il primo si chiama “Izreèl”, come la valle nella quale era stato distrutto dai filistei l’esercito ebraico di Saul (1 Sam 29,11; 2 Sam 4,4), primo a essere unto re, o in cui si trovava la vigna che un altro re, Acab, desiderava e che la regina, Gezabele, riuscì a strappare a Nabot facendolo ingiustamente condannare a morte (1 Re 21) e dove la stessa Gezabele venne uccisa e abbandonata ai cani (2 Re 9). Non un posto di buon auspicio, insomma, ma un luogo in cui si erano verificati episodi di ingiustizia che Dio vuole vendicare (Os 1,4-5). Anche gli altri figli, peraltro, porteranno nomi “difficili”: “Non-amata” e “Non-popolo-mio” (1,6-9). Un marito vendicativo? La moglie di Osea non smette di prostituirsi, come il popolo di Israele non smette di allontanarsi da Dio. Che cosa farà allora il profeta/Dio? Secondo la tradizione e la legge, il marito avrebbe potuto mandare a morte la moglie infedele. Secondo gli antichi scritti sulla gelosia divina, Dio non sopporta che gli si mettano accanto altre divinità. Ma la reazione di vendetta è sì minacciata (Os 2,11-15) ma poi non realizzata: Dio, dopo aver minacciato, finisce con l’immaginare di “parlare al cuore” della moglie, portando Israele in quel deserto dove non aveva garanzie e doveva fidarsi solo di Dio, che peraltro si era dimostrato affidabile (Os 2,16); per condurvi la moglie/popolo, il profeta/Dio non la costringe, non la forza, come peraltro secondo la legge avrebbe potuto fare, ma vuole “sedurla”, per convincerla a non chiamarlo più “mio Signore”, ossia colui che mi comanda (ed era il titolo che si dava anche alle divinità alternative a Dio), bensì “mio uomo”, in un legame non comandato più dalla legge, ma dall’affetto, dalla passione. Questa parte narrativa del libro di Osea si chiude (cap. 3) con il profeta che è invitato da Dio a “comprare” la propria moglie, chiedendole di non prostituirsi più. Non sappiamo come andrà a finire, perché rispondere spetta alla moglie, al popolo, ossia a noi… Ma il profeta/Dio è disposto a non pretendere il suo diritto con la forza della legge, bensì a “sedurre” la moglie, o al limite a comprarla. È disposto a scendere a patti per ciò che gli sta più a cuore. Un Dio sfortunato? Ma nel resto del libro, che è scritto in poesia quindi più difficile da seguire, ritorna la stessa idea, quella di un Dio per cui la cosa più importante è il rapporto con l’uomo. È un Dio che riconosce che tutto l’amore di Giacobbe e Israele è in realtà instabile, esteriore e legati ai riti (Os 4-5), nonostante Dio cerchi l’interiorità («voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti»: 6,6); al contrario, però, il popolo d’Israele cerca il modo di ingraziarsi le divinità, si fa incisioni per guadagnarsene il favore (7,14). Si cerca la compravendita quando Dio vuole regalare. Il discorso si fa però più intenso nel capitolo 11, anche se il linguaggio poetico a volte non ci aiuta nel cogliere il cuore del discorso: «Quando Israele era un ragazzino, io l’ho amato e l’ho portato fuori dall’Egitto» (v. 1), ossia non quando era un uomo fatto dal quale avrei potuto essere sostenuto o protetto, ho amato Israele fin da quando era fragile, l’ho scelto personalmente, in un legame personale e intimo. «Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me» (v. 2). «A Efraim insegnavo a camminare tenendolo per le ascelle» (v. 3), come un genitore che non abbandona il figlio che inizia a essere autonomo, ma lo fa da dietro, per non farsi vedere, per dare la sensazione al bambino di fare tutto da solo, benché continui a sostenerlo per sicurezza… «Li traevo con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla guancia», gesto non di dominio ma di affetto, di tenerezza. Eppure, Israele è andato verso altri dèi. Che cosa dovrebbe fare chi ha amato tanto e si vede tradito? Non fatichiamo certo a capire chi in casi del genere si incattivisce, rompe ogni relazione. E Dio stesso ammette che dovrebbe rispondere con la strage (vv. 5-6). Quando però riconosce che il suo popolo non è in grado di guardare verso l’alto (v. 7), non ne deduce che quindi deve abbandonarlo: «Come potrei abbandonarti? Come consegnarti ad altri? dovrei ridurti come Admà e Zeboìm?», due città che la tradizione ebraica univa a Sodoma e Gomorra (Dt 29,22), distrutte per la loro malvagità. «Si sciolgono i miei intestini per la commozione» (Os 11,8). Dio ammette che il suo popolo non ha risposto al suo amore, e che quindi dovrebbe essere giustamente abbandonato; ma, semplicemente, Dio non ce la fa. Ama troppo, non sopporta di vedere il male dell’amato. Messo alle strette tra la vergogna di non essere rispettato e la sofferenza di vedere soffrire chi ama… decide di passare piuttosto per stupido e ingenuo, rompe le proprie stesse condizioni
Suor Paola Rossi. Apostola in Somalia
Era stata chiamata Giuseppina il giorno del Battesimo. Volle chiamarsi Paola nella vita religiosa, per essere un’appassionata apostola delle genti, come San Paolo. Personalità ricchissima e molto dotata, Suor Paola fa parte della storia della missione in Somalia, di cui quest’anno ricordiamo i 100 anni dall’arrivo delle prime Missionarie della Consolata. Ascoltiamo il racconto di Madre Nazarena. Breve, sì, ma intenso l’arco di vita missionaria che sr. Paola va iniziando: un guizzo di fiamma, lo sprazzo di un’esistenza che volge presto al tramonto. L’amore apostolico, qui, consiste in un umilissimo servizio che conosce i fremiti del dolore; che sopporta pesi, sudori, fatiche, indifferenza, durezze d’ogni genere. La sua efficacia non è certo visibile. Il messaggio evangelico può solo essere annunziato mediante l’esempio più eroico, senza parole, con una carità profusa in atti concreti, che il più delle volte non hanno contraccambio. Qui – pensa sr. Paola – occorre amare “come” Gesù: “dare la propria vita”… Nei giorni di vacanza le sorelle insegnanti e quante hanno un fil di tempo vanno per i “tucul” della periferia, o al “meschinopoli”, e vi recano sussidi alimentari, medicine, vestiario e tutto il poco di cui dispongono. Esse seguono da vicino e accompagnano fino all’estremo non pochi bimbi e anche adulti. Impossibile seguire la giornata operativa di questa giovane missionaria. Le suore, le ragazze meticce, i vari gruppi che preparano l’Azione Cattolica, le donne italiane, somale, eritree…, tutti ricorrono a lei, e lei tutti sa ascoltare con semplicità e grazia, e rispondere con franchezza evangelica. Dopo cena e la susseguente pesante, affollatissima scuola per adulti somali, c’è finalmente la dolce intimità di famiglia, seduta nel cortile ombreggiato solo dalle tenebre notturne. Com’è atteso, gustato, rinfrancante questo po’ di ricreazione a chiusura della giornata carica di fatica, fradicia di sudore, di difficoltà e talvolta di amarezze! In tali distensioni serali la famiglia religiosa rinsalda i propri vincoli, rinnova le forze; i cuori si dilatano e tutte riprendono coraggio e serenità… per la prostrante notte di calore e la giornata che verrà. L’arrivo di sr. Paola in Somalia segna il quarto anno che non piove: siccità, carestia, fame, sete, dissenteria a sangue, morte. Durante la visita alle case incontra cadaveri disseminati, crollati per inedia lungo la strada tutta spaccata e screpolata in ogni senso; donne, bimbi, giovanetti scheletriti, con gli occhi più che con il fil di voce gemono: “aniga meschin”, “sono un povero”. Scene indescrivibili! Tutti si dirigono a Mogadiscio come al porto della salvezza e della vita… Suor Paola Rossi muore a 34 anni, dopo 14 mesi di intenso apostolato in Somalia, terra di missione dell’Istituto da 9 anni. Aveva fondato l’Azione Cattolica in terra somala, lei che ne era un’attiva militante nella Diocesi di Milano, convinta che avrebbe portato tanto bene e crescita personale in quel contesto così povero. Si era offerta vittima per la Redenzione un anno prima.
La vicenda della figlia di Iefte
(Giudici 11,29-40) La vicenda della figlia di Iefte si colloca in un momento preciso della vita del popolo di Israele, tra l’uscita dall’Egitto e la prima Monarchia: il tempo del nomadismo. Si tratta di circa duecento anni in cui le dodici tribù di Israele si organizzarono con efficacia; ogni gruppo/tribù si dotò di un apparato militare e un gruppo di saggi, ed elesse una figura carismatica, il Giudice, che radunava in sé il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo. Si trattava di un vero leader chiamato a guidare la propria tribù: in tempo di pace era una figura di garanzia fra le parti, ma in tempo di guerra diventava capo supremo dell’esercito. Tra i molti giudici delle dodici tribù di Israele ne emerse uno, un uomo d’armi; il suo nome era Iefte; Iefte, da guerriero esperto attraversò Gàlaad e Manàsse, passò a Mizpa di Gàlaad e da Mizpa di Gàlaad raggiunse gli Ammoniti. Iefte fece voto al Signore e disse: «Se tu mi metti nelle mani gli Ammoniti, la persona che uscirà per prima dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io l’offrirò in olocausto». Quindi Iefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore glieli mise nelle mani. Egli li sconfisse da Aroer fin verso Minnit, prendendo loro venti città, e fino ad Abel-Cheramin. Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti. Poi Iefte tornò a Mizpa, verso casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia, con timpani e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli, né altre figlie. Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: «Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi». Essa gli disse: «Padre mio, se hai dato parola al Signore, fa’ di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici». Quindi, la giovane disse al padre: «Mi sia concesso questo: lasciami libera, per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità, con le mie compagne». Egli le rispose: «Va’!», e la lasciò andare per due mesi. Essa se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con voto. Essa non aveva conosciuto uomo; di qui venne in Israele questa usanza: ogni anno le fanciulle d’Israele vanno a piangere la figlia di Iefte, per quattro giorni. Le Sacre Scritture parlano al nostro cuore e alla nostra volontà; ma, mentre le parole di Gesù ci appaiono, con immediata evidenza, buone e degne di essere accettate, spesso le parole dell’Antico Testamento suonano al nostro orecchio: forti, dure e lontane. Il Vangelo ci invita al perdono, alla mitezza, alla pace, l’Antico Testamento, molto spesso, ci parla di guerre, di vendette, di condanne a morte, quindi è abbastanza diffusa la tendenza ad escluderlo dalla riflessione religiosa. Salvo poi che nella nostra condotta pratica ci comportiamo come Iefte che, ignorante sulla volontà di Dio, immolò la sua unica figlia. Abbiamo il dovere di confrontarci con tutta la parola di Dio, comprese le pagine più dure. La lettura di Iefte, come dice il biblista Paolo De Benedetti, fa da ”contravveleno a una concezione intimistico-spiritualista di Dio”. Ci sconvolge l’episodio della figlia di Iefte, sacrificata dal padre per il voto fatto a Dio di offrirgli in sacrificio chi fosse uscito da casa sua al ritorno dalla vittoria sugli Ammoniti. Nel sacrificio di Isacco è Dio che chiede il sacrificio che alla fine non si compie, mentre nel caso della sfortunata figlia di Iefte il sacrificio si compie e viene proposto da Iefte stesso. Iefte, nella sua ignoranza, che proviene, possibilmente, da una vita intera dedicata alla guerra, si rivolge ad un dio che non è quello dell’Alleanza ma ad un dio fatto ad immagine e somiglianza dell’uomo, un dio che, secondo Iefte, avrebbe accettato lo scambio tra la vittoria ed una vita umana. Là dove l’uomo si fa un’immagine di ‘dio’ secondo il proprio pensiero e i propri interessi, si predispongono le prime tracce del fondamentalismo, e, come conseguenza immediata, si giunge all’assassinio. E quale assassinio: la stessa figlia! Nel nome di questo dio inferiore, che assomiglia molto all’uomo, non si può esitare nemmeno nella distruzione del proprio popolo, della propria gente, dei propri stessi cari… . I fatti di cronaca di tutti i giorni parlano di questi fatti, dove il braccio armato del terrorismo internazionale immola i suoi stessi figli, raccontano la stessa drammatica vicenda. C’è un piccolo uomo con una coscienza piccola ed un dio assetato di sangue. Il fatto è che questi ‘dei’ prodotti dall’uomo sono potentissimi; parlano e convincono le menti al successo e alla prevaricazione, alla violenza e al potere. Sono i frutti della estensione della coscienza malata dell’uomo. Mi pare di vedere molta attualità nella vicenda religiosa di Iefte, uomo che non sa niente di Dio, del suo amore, della sua misericordia, della sua tenerezza ma lo immagina così come è fatto lui: un dio grande, che può tutto, sta sopra gli uomini, vede, scruta, un dio esigente. Iefte non ha conosciuto una vera esperienza di fede e di apertura al trascendente, ma una semplice esperienza religiosa verso un dio frutto della sua coscienza: si tratta di una esperienza religiosa bugiarda eppure tanto comune oggi nella nostra società. L’ignoranza su Dio crea divinità mostruose assetate di sangue. L’ignoranza su Dio uccide la propria discendenza. L’ignoranza su Dio arma la propria mano contro il fratello, l’ignoranza su Dio è discriminante ed egoista. Oggi, dove la comunicazione è efficace e velocissima, dove un’infarinatura generale sulle “cose della religione” è facilmente fruibile dalla T.V. dai libri e da internet, rischiamo di essere come Iefte, certo non assassini cruenti ma mortificatori delle speranze delle persone e in particolare dei giovani. La dove un uomo o una donna totalmente
Saheli. Dai diari di Suor Gemma Ida
Ero andata all’ospedale governativo per ritirare alcuni esami clinici e passando davanti al reparto maternità, vidi fuori dalla porta, in atteggiamento di attesa un poliziotta in divisa, mi avvicinai e un po’ per scherzo, un po’ sul serio, chiesi se stava custodendo una detenuta. “Si” mi rispose. “O buon Gesù, che cosa mai può aver fatto di male una donna in gravidanza avanzata?” “Nulla di particolare, sister, ha rubato alcune masserizie dalla cucina. Dovrà stare in prigione da uno a due mesi”. “Posso venire più tardi a trovarla e a portare qualcosa alla nuova creaturina?” “Certo, sister, grazie”. Ritorno a casa di corsa 5 km. Benedetta questa motoretta, esclamo, che mi porta dove col cavallo di San Francesco non potrei arrivare in fretta. A casa cucio un vestitino, cerco altri indumenti e alle 12 sono di ritorno dalla nuova mamma. Chiedo il permesso a chi di dovere: poliziotta e caposala per visitarla. Mi si concede chiedendomi solo se la conoscevo. “No” risposi. “E allora come mai tanto interesse per una detenuta?” “Amiche, se visitare i carcerati è opera di misericordia per i cristiani e non cristiani, tanto più lo deve essere per una religiosa” rispondo. Tutto lo staff del reparto è incuriosito, per il pacchettino che tengo in mano, vuole vedere cosa porto alla neonata, così ci avviamo tutte assieme al letto di Saheli, nome della nuova mamma, che meravigliata per tutta quella gente, ha un po’ paura. L’assicuro dicendole che sono un’amica, volevo solo vedere la piccola, alla quale avevo già dato il nome di Nateso (che significa sofferenza, tribolazione). Sovente i bambini prendono il nome secondo delle circostanze che prevengono, precedono o seguono il parto. Che nome poteva mai prendere la piccola nata come tutti i bambini che nascono in ospedale, ma che solo fra quattro ore sarebbe dovuta tornare in carcere con la mamma? Vesto la piccola, chiedo a chi di dovere (mamma e poliziotta) per una foto. Al consenso tutte le infermiere si disputano Nateso, perché tutte vorrebbero avere il suo ricordo. Saluto la mamma, ringrazio tutti, poliziotta e personale, e di corsa ritorno a casa pregando il Signore che accetti l’umiliazione di Nateso e della mamma e conceda al mondo una giustizia più giusta. Otto giorni dopo ritorno alle carceri per salutare le mie amiche, con grande gioia mi sento dire dal direttore stesso, incontrato per strada (lo conoscevo da tanto) che erano ritornate alla loro casa. Grazie. P.S.: in una sola settimana tre mamme diedero alla luce i loro piccoli come Saheli all’ospedale, ma poi ritornate subito in carcere.
Santità e la dimensione eucaristica della vita
Una riflessione che ci accompagna nel cammino verso il Centenario della nascita al Cielo di San Giuseppe Allamano L’Eucaristia è l’espressione suprema di amore di Gesù per l’umanità e per ogni persona in particolare. Nell’ora in cui Lui torna al Padre, Gesù sceglie di rimanere in modo tangibile in comunione con i suoi attraverso il Pane Eucaristico, benedetto e spezzato, cibo nel cammino incontro al Padre. «Al culmine della sua vita … spezza sé stesso nella cena pasquale con i discepoli. In questo modo Gesù ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore, trabocca condivisione.» San Giuseppe Allamano e l’Eucaristia L’esperienza di questo amore incondizionato di Gesù non ci lascia indifferenti, ma scalda il cuore e lo muove irresistibilmente a rispondere con altrettanto amore e farsi anche pane spezzato per l’umanità amata da Dio. È l’esperienza di San Giuseppe Allamano, un amore che brucia dentro e lo mette sempre in cammino, con una creatività ed energia straordinarie, portandolo a iniziative che trascendono le sue stesse possibilità umane, come quella della fondazione di due istituti missionari nell’età adulta, accompagnandoli fino alla fine della sua vita, tanto da scrivere nel testamento: «Per voi sono vissuto tanti anni, e per voi consumai roba, salute e vita. Spero morendo di divenire vostro protettore in cielo.» I suoi grandi amori, l’Eucaristia e la Consolata, hanno ispirato il suo essere e il suo agire. Questa esperienza non rimane nascosta nelle pieghe del suo cuore; egli la sa trasmettere in qualità di maestro e di guida spirituale, di padre e di formatore, ispirando ieri e oggi cammini di santità. «Ciascuno pensi alla voce di Dio che lo chiama a essere santo. Nella Santa Comunione e nella visita a Gesù sacramentato rinnovate il vostro proposito e diteli: voglio farmi santo, voglio farmi gran santo, voglio farmi presto santo. Lo posso, lo debbo, quindi lo voglio.» E ancora: «Se sarete devoti di Gesù Sacramentato, non potrete non riuscire santi.» Il rapporto con Gesù Eucaristia si alimenta attraverso una comunione costante, ogni giorno: «La Messa, la Comunione e la visita al SS. Sacramento: ecco i nostri tre amori!» Un rapporto che scava dentro e porta gradualmente la persona in un processo di trasformazione in Cristo e ad avere persino le sembianze di Gesù: «Gesù dice agli apostoli: “Chi vede me, vede anche il Padre” (Gv 14,9), e voi a vostra volta possiate dire: chi vede me, vede Gesù!» Questa trasformazione è avvenuta nella stessa vita di Giuseppe Allamano, nel modo di essere, di fare, di rapportarsi; persino l’aspetto fisico sembrava essere permeato da questa comunione con Cristo, come attestano molte testimonianze di chi lo vedeva celebrare la Messa o in preghiera nel coretto, di cui riportiamo una: Il can. D. Turco: «Quand’io ero chierico e lui già sacerdote, l’accompagnavo sovente alla visita al SS. Sacramento, che si faceva in parrocchia, alla sera. Posso affermare questo: che si sentiva come una fragranza di fede. Non so esprimermi altrimenti. Tale era il suo contegno davanti al santo tabernacolo. Posso aggiungere che ho appreso da lui, per così dire, la fede viva e l’amore all’Eucaristia. Sembrava che vedesse Gesù. Del resto, più volte egli stesso me lo confidava: che aveva tanto amore a Gesù Sacramentato». L’amore per Gesù Eucaristia trovava espressione nella donazione di sé, instancabile nell’agire senza perdere la comunione intima con Gesù. La sua giornata si aggirava attorno a Gesù, Egli era veramente il centro, da Lui partiva e a Lui tornava costantemente. La giornata eucaristica era suddivisa in un tempo di preparazione all’incontro nella celebrazione eucaristica e poi di ringraziamento. In questo modo prolungava la Sua presenza lungo la giornata. Lo stesso amore ha ispirato il suo impegno missionario. Più volte ha espresso la gioia di rendere Gesù presente in luoghi dove non era ancora conosciuto e amato: «Quanto godo che Dio, per mezzo nostro, vada moltiplicando i santi Tabernacoli! E quanti nuovi Tabernacoli con il tempo! Sono focolai di amore per noi e di misericordia per la gente. Che fortuna averne già tanti in missione! Io credo, anzi è certo che essi debbono attirare le grazie su quelle terre.» «Vi Voglio Sacramentini» Riecheggia ancora oggi, forte e chiaro, quel «vi voglio sacramentini» di Giuseppe Allamano con intensità carismatica per divenire missionari e missionarie autentici. Siamo innamorati dell’Eucaristia, centro attorno al quale la vita trascorre, si riempie di significato, motiva il donarsi e fa di noi offerta gradita al Padre, pane spezzato e vino versato. Trasmettiamo questo amore dell’Eucaristia alle persone che avviciniamo. Abbiamo un bellissimo esempio in Carlo Acutis, il giovane che verrà proclamato santo il prossimo 27 aprile, che diceva: «L’Eucaristia è la mia autostrada per il cielo.» L’amore sperimentato nel rapporto con Gesù Eucaristia non lascia spazio per ripiegamenti egoistici. Non dobbiamo e non possiamo vivere per noi stessi, chiusi in orizzonti troppo angusti e difensivi, centrati su noi stessi, intesi in affermazioni dei propri punti di vista e dei propri interessi. Questi atteggiamenti tradiscono lo «spirito», il carisma di Giuseppe Allamano, che ci vuole persone di orizzonti ampi, cuori grandi, attenti ai bisogni degli altri, che fanno bene il bene e in modo superlativo, “issimi” in tutto. Papa Francesco ce lo ricorda: «L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure. Il Pane di vita, infatti, risana le rigidità e le trasforma in docilità. L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi.» Per la Riflessione Personale Così vi voglio, cap. 8. ( ► Così vi voglio) Papa Francesco, Angelus, 6 giugno 2021. ( ► Angelus) Scarica la scheda:
Dire SI a Dio e alla missione. Prime professioni religiose
Ancora oggi è possibile dire SI a Dio e alla missione? A Caprie (TO) nella sede del Noviziato Internazionale, si sono celebrate le Prime Professioni religiose nel giorno della festa dell’Annunciazione del Signore, 25 marzo 2025. Anne, Telesia e Winniejoan, dopo un prolungato tempo di formazione e di discernimento in Kenya, sono giunte in Italia nel 2023, hanno vissuto intensamente il Noviziato, un tempo importante di iniziazione alla vita religiosa, fino al SI pronunciato davanti alla comunità di suore riunite, strette attorno a loro, in questo momento così speciale per la loro vita. Ha celebrato, insieme a un numeroso gruppo di sacerdoti diocesani e missionari della Consolata, Padre Piero Trabucco, imc, della comunità di Castelnuovo Don Bosco. Padre Piero ha indicato le parole dell’Angelo a Maria come una luce per il loro cammino: “Non temere” e “nulla è impossibile a Dio”. Maria è il modello della risposta nella fede a Dio, è nostra madre e nostra sorella nel cammino: la Consolata è la nostra Mamma che indica Gesù, maestro e via. Le Neoprofesse Suor Anne, Suor Telesia e Suor Winniejoan, dopo la comunione, si sono proprio rivolte a Maria Consolata con un canto e una danza dedicate a lei: sia la nostra cara Mamma la loro stella nel cammino! Madre Lucia Bortolomasi, Superiora generale, ha rivolto tre parole alle Neoprofesse: RALLEGRATI, NON TEMERE: perché la grazia di Dio è con voi e LO SPIRITO SANTO scenderà su di voi. Mettendosi sotto il manto della Consolata ogni volta che appaiono difficoltà nel cammino. Nel pomeriggio la gioia è continuata con l’entrata al Noviziato di Prisca, Imelda e Grace (tanzaniane) e Maramtu (etiopica): anche loro mettiamo sotto il manto di amore e consolazione della Consolata! BUON CAMMINO! CON IL NOSTRO AFFETTO E LA NOSTRA PREGHIERA!
La Voce dei Profeti: Interpreti del Pensiero Divino
La quaresima non avrebbe senso senza la Pasqua, a meno di ridurla a una semplice masochistica penitenza, e la Pasqua non avrebbe forse spessore e profondità senza la quaresima. Ecco perché, solo per questa volta, mi sento di invitare i nostri quindici lettori a pensare insieme questa riflessione e quella del mese prossimo, entrambe in ascolto di un profeta particolare, che ci donerà oggi motivi di afflizione e di triste consapevolezza, ma si aprirà poi a una serenità particolare. In fondo, la fiduciosa speranza alla quale oggi chiamiamo è virtù pienamente cristiana. Un profeta strano Noi oggi consideriamo Geremia uno dei tre profeti più importanti, ma ai suoi contemporanei doveva sembrare come minimo strano, se non un menagramo immotivato e insopportabile. Vive a cavallo tra vii e vi secolo a.C. a Gerusalemme. Poco più di un secolo prima la città era stata assediata dall’invincibile e terribile esercito assiro e, in quel contesto, un altro profeta, Isaia, aveva invitato ad avere fiducia in Dio, che non avrebbe lasciato distruggere il suo tempio. E, in effetti, dopo qualche mese l’esercito nemico se ne era andato senza espugnarla e non era più tornato. Al tempo di Geremia quell’impero era andato in crisi ed era stato sostituito da quello babilonese, che tentava minaccioso di espandersi anche sulle coste del Mediterraneo. Stavolta, però, sembrava che i giudei potessero contare su un’alleanza difensiva con il forte Egitto. Senza contare che quella promessa divina di tutela del tempio non poteva essere decaduta. Geremia, però, non la pensa così. Invita i suoi concittadini, se vogliono seguire il desiderio divino, ad aprire le porte della città e lasciare distruggere il tempio. Sembrava impossibile: il tempio di Gerusalemme, infatti, non era semplicemente quello che per noi potrebbe essere una chiesa, fosse pure San Pietro in Vaticano: il tempio era «il luogo che Dio si è scelto per porre la sua dimora in mezzo agli uomini», era la presenza divina nel mondo, qualcosa di più simile a ciò che per i cristiani è l’eucaristia. E Geremia invitava a lasciarlo distruggere! Sembrava una bestemmia! Una tale posizione, oltre accuse di disfattismo, poteva sembrare smentire anche l’antica profezia (riuscita!) di Isaia. Dio poteva aver cambiato idea? Si capisce che qualche responsabile del tempio (nella fattispecie, il sacerdote Pascur figlio di Immer) si senta in dovere di rimproverarlo minacciosamente, per farlo tacere. Geremia gli risponde con durezza, come si conviene a un profeta di Dio. Solo che poi… Un profeta in crisi Poi però, improvvisamente, la grinta del profeta sembra svanire in un lamento. «Mi hai sedotto e io sono stato conquistato. Mi hai violentato e sei stato più forte» (Ger 20,7). Non è un linguaggio di amore, Geremia sembra parlare di sopraffazione. Non un amante tenero e affettuoso, ma un seduttore violento ed egoista. Come è possibile? Che cosa è successo a Geremia? «Quando parlo, devo gridare “Violenza e oppressione”, e per questo mi prendono sempre in giro. Mi scherniscono perché continuo a parlare di terrore. Mi chiamano “Terrore all’intorno!”. E sperano che io cada, si dicono che basta che qualcuno inizi a denunciarmi, che gli daranno ragione e proveranno a liberarsi di me» (Ger 20,8.10). Le parole del testo biblico non sono precisamente queste ma il loro senso più o meno lo è. Più avanti, dopo qualche versetto più positivo, il profeta calca ancora di più la mano: dichiara maledetto il giorno in cui è nato, maledice l’uomo che ha portato al padre la bella notizia della nascita di un maschio, ossia libero di parlare in pubblico, sogna il grembo materno come sua tomba (Ger 20,14-18). Rifiuta il bene massimo per tutti gli autori biblici, vale a dire quello della vita, dono divino per eccellenza. Sembrerebbe quasi che il profeta sia irritato e spaventato dal suo stesso messaggio, si ritrovi incasellato in una parola divina che non condivide. Afferma anche, infatti, di aver provato a tacere, a non parlare più in nome di Dio (v. 9). Una voce originale Un messaggio di questo tipo è straordinario. Troviamo a volte in alcuni salmi o in Giobbe l’invocazione della morte, ma sempre come alternativa a una vita che si è fatta insostenibile per le persecuzioni, per le sofferenze, le malattie… Tutti quei salmisti si sentivano in fondo allontanati da Dio, e in quella situazione invocavano la morte. Geremia, invece, questa separazione dal suo Signore la desidera, è da lui che vuole essere liberato. Che cosa è accaduto? I profeti avevano sempre costituito una voce particolare, nel mondo ebraico. Erano coloro che intuivano il cuore di Dio, ciò che il Signore avrebbe pensato di situazioni, contesti e scelte umane. La loro era la voce di chi non passava da un’interpretazione rigorosa della Parola di Dio già data, ma che sapevano intuire il nuovo, ciò che l’Altissimo non aveva ancora detto ma certamente pensava. La verifica del loro messaggio, allora, non poteva passare dal controllo di ciò che era già stato detto in passato: bisognava affidarsi all’interpretazione dei profeti, fidarsi della loro parola, che non fosse una profezia falsa. La mancata attuazione delle loro eventuali previsioni avrebbe in effetti significato che non erano affidabili. Questa verifica però sarebbe arrivata solo quando la parola del profeta non sarebbe più stata utile. Prima di allora, la credibilità del messaggio profetico passava dalla sua persona: quanto più credibile e affidabile era lui, tanto più sarebbe stata da ascoltare la sua parola. Questa impostazione, probabilmente, aveva fatto crescere anche la consapevolezza dell’individualità del profeta. Un sacerdote, in fondo, interpretava la parola di Dio già detta in un modo che voleva essere oggettivo. Che fosse lui o un altro sacerdote a interpretarla, non avrebbe dovuto essere diverso.  Con i profeti era differente, sostenevano che fosse stato il Signore stesso in persona a parlare loro. Diventavano qualcuno, diverso dagli altri. Il loro rapporto di fede diventa inevitabilmente personale.  Al punto che Geremia può porsi davanti al suo Dio non come un semplice esecutore dei suoi comandi, quasi uno schiavo, bensì come una persona autonoma che non apprezza allo stesso modo tutti
Storia e fede si intrecciano a Tuthu (Muranga) in Kenya
Oggi, storia e fede si sono intrecciate magnificamente mentre ci siamo riuniti a Tuthu, in Kenya – la culla dell’evangelizzazione cattolica nella Regione – per celebrare l’apertura del centenario della morte di san Giuseppe Allamano. Questo luogo sacro, dove nel 1902 arrivarono i primi missionari della Consolata, ha offerto la cornice perfetta per una celebrazione eucaristica profondamente spirituale e memorabile. La Santa Messa è stata presieduta da Mons. Virgilio Pante, Vescovo emerito di Maralal, e concelebrata da Mons. Peter Makau, Vescovo della Diocesi di Isiolo. La loro presenza ha aggiunto un significato profondo a questo evento fondamentale, che ha riunito sacerdoti, fratelli, suore e laici missionari della Famiglia della Consolata. Il vescovo Peter Makau ha tenuto un discorso, ringraziando i coraggiosi missionari che vennero in Kenya 100 anni fa. Hanno lavorato molto duramente per diffondere il messaggio del cristianesimo. Ha ringraziato anche i missionari italiani che hanno continuato a servire in Kenya. Ha menzionato in particolare il Vescovo emerito, P. Brambilla, e suor Giuseppina Franco. Come Missionari della Consolata abbiamo una lunga storia in Kenya. Fin dalla nostra fondazione il nostro obiettivo principale è diffondere il Vangelo e aiutare chi è nel bisogno. Oggi la Famiglia Consolatina continua a servire in diversi paesi del mondo. Stiamo lavorando con le comunità locali e le Chiese per far crescere e fiorire il seme del Vangelo. Nel celebrare i 100 anni dalla morte del nostro Padre Fondatore, San Giuseppe Allamano, siamo chiamati a perseverare nella nostra missione. Continuiamo a diffondere il messaggio del cristianesimo e ad aiutare chi ne ha più bisogno. Il Vescovo emerito ha detto che è giunto il momento che gli africani assumano la leadeship. Fare in modo che la nostra famiglia religiosa continui a fiorire e ad andare avanti, inviando missionari e missionarie ad gentes per l’evangelizzazione di tutti i non cristiani. È stata un’occasione speciale e grande che ci ha ricordato pienamente ciò che ci caratterizza come Missionari/e della Consolata ovunque nel mondo è l’unità tra santità e Missione, voluto dal Fondatore. Con il cuore pieno di gratitudine e di gioia, abbiamo riflettuto sull’eredità di San Giuseppe Allamano, la cui visione missionaria continua a plasmare e ispirare generazioni. San Giuseppe Allamano ha sempre messo Gesù al centro della sua vita e quella è stata la sua forza trainante e ispiratrice. La celebrazione non è stata solo un evento ma una benedizione per la nostra istituzione, rafforzando il nostro impegno di santità per l’efficacia della missione di evangelizzazione. Sr. Rebecca Kemunto, MC
L’ora più umana
La Lettera agli ebrei, per presentare la piena umanità di Gesù, parla di “preghiere e suppliche insieme a un forte grido e lacrime”, grazie alle quali Egli viene ascoltato e diventa perfetto e causa di salvezza per gli uomini che si legano a lui (Eb 5,7-9). Insomma, per l’autore di quello scritto Gesù è affidabile perché si sottomette alla condizione umana, e lo fa soprattutto nel Getsemani. Vediamo allora di rileggere quel momento, seguendone soprattutto la presentazione del vangelo secondo Marco, la più antica e asciutta. La notte dell’anima Nella seconda metà del vangelo Gesù, che prima era circondato da folle festanti, è sempre più contestato e solo: crescono le polemiche, i suoi discepoli si litigano i posti di rilievo, infine si arriva all’ultima cena, festa familiare che però Gesù vive non con la sua famiglia ma con la “nuova famiglia” dei discepoli, tra i quali, a loro volta, si annida un traditore e tanti che rinnegheranno. E lui, durante la cena, dice di saperlo. Dopo Gesù si ritira in un luogo isolato, per pregare, e chiede solo a tre dei discepoli, i suoi più intimi, di accompagnarlo. Quindi si allontana ancora (Mc 14,34-41): E dice loro: «La mia anima è angosciatissima fino alla morte:restate qui e vegliate». A prima vista la paura di Gesù sembra eccessiva. Va bene la solitudine, va bene la percezione del rischio, perché Gesù ha sfidato le autorità del tempio che non osano arrestarlo in pubblico ma di certo vorrebbero metterlo a tacere. È però ancora libero, potrebbe serenamente allontanarsi da Gerusalemme e tornare in Galilea, dove non correrebbe rischi. Si intuisce qualcosa di più se notiamo che Gesù parla di “anima”. Per il mondo ebraico l’uomo era un tutt’uno, di cui però si potevano distinguere dimensioni diverse. Spesso si parlava di “spirito, anima e carne”. Lo spirito era l’uomo nelle sue relazioni, nelle decisioni, nella razionalità e nei sentimenti; la carne nelle sue debolezze e fragilità. L’anima diceva il rapporto con il trascendente, con Dio. A essere in crisi è questa ultima dimensione. Gesù e il calice E, andato avanti un poco, cadeva a terra e pregava che, se era possibile, passasse via da lui l’ora, e diceva: «Abbà, Padre, tutto ti è possibile: porta via da me questo calice: ma non quello che voglio io, ma quello che tu». “Abbà” è parola tenerissima. Non tanto per quello che vuol dire (semplicemente “padre”, anche eventualmente in modo ufficiale) ma perché è in aramaico, la lingua madre di Gesù, non quella della preghiera. Gesù sa di potersi rivolgere a Dio come a un padre, come a chi gli è intimo, lo conosce, vuole il suo bene. Non si rivolge semplicemente all’Onnipotente, ma a un Onnipotente che è dalla sua parte. E gli chiede di allontanare il calice. Solitamente pensiamo che si tratti della morte, della croce. Ma probabilmente non è così. L’Antico Testamento era solito definire il male che arrivava addosso alle persone con immagini diverse: le piaghe o i flagelli indicano una punizione che mi arriva e a cui non posso sottrarmi, come una frustata o un’infezione che parte da dentro. Parlare di calice (anche nei profeti!) indica però qualcosa di diverso: al flagello posso al limite provare a sottrarmi, ma in ultimo lo subisco, mentre un calice pieno di una bevanda amara o di un veleno devo berlo, devo collaborare, devo agire attivamente. Non sembrerebbe una buona immagine per ciò che sta per succedere a Gesù, che dall’arresto non farà più niente… A meno che… A meno che Gesù pensi proprio a qualcosa che deve collaborare a fare, che non vorrebbe bere. Di certo Gesù non vorrebbe la croce e la morte, ed è già qualcosa di giusto da notare. Quante volte nella nostra tradizione religiosa si è data l’impressione che soffrire sia bello. Gesù non vuole soffrire, non vuole che soffriamo (quante persone ha guarito?). Ma il “calice” non può parlare della croce. C’è altro. E possiamo averne una conferma dalla fine dell’episodio: E viene la terza volta e dice loro: «Dormite ormai e riposatevi: è passato: è giunta l’ora, ecco il figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori». Come può Gesù dire che “è passato” qualcosa che non è ancora iniziato? Se pensiamo che il calice sia la croce, questo verbo è sbagliato, e infatti le nostre traduzioni cercano di correggerlo in “basta!”. Il cuore dell’umanità: decidere Gesù si è finora presentato come colui che fa conoscere il volto di Dio, volto che è buono e positivo, immagine di un Dio che è a favore del bene e della vita degli esseri umani. Questo volto è contestato dalle autorità religiose del tempio. Nell’ultima cena Gesù ha dimostrato di sapere (come?) che uno dei discepoli lo tradirà. Sente di essere in trappola, e sente, soprattutto, che in qualche modo è chiamato a testimoniare fino alla fine l’amore di Dio. Un Dio che è pronto a mettere a disposizione degli uomini la propria offerta di comunione fino a dare la vita. Gesù si è già dimostrato pronto ad andare fino in fondo. Perché allora ora tentenna? Paura della morte? Non solo. Più in profondità, si intuisce nel racconto evangelico un dramma più grave. In fondo, anche noi sappiamo che l’essere umano sa affrontare la morte da eroe. Il problema è se ne valga la pena. Anche Gesù percepisce di trovarsi di fronte alla sfida definitiva e si trova confrontato con la domanda più radicale cui si possa trovare di fronte un essere umano: non “quanto dovrò soffrire?” o “perché devo morire?”, ma “e se mi sbaglio?”. Gesù crede di essere il Figlio, al modo con cui noi intuiamo le verità più fondamentali della nostra vita, ossia come interpretazione di fondo che dà senso a tutto ma non è razionalmente dimostrabile. E di fronte a tali realtà nasce inevitabile la domanda sulla possibilità di sbagliarsi. “E se non fosse vero? E se non fossi nient’altro di uno tra i tanti umani?”. Non a caso le tentazioni, come ce le presentano gli altri
Testimoniando la missione
“Apriamo il cuore a una speranza viva!! Le comunità delle Missionarie della Consolata in Argentina e Bolivia propongono attività di Animazione missionaria e vocazionale in comunione con i Laici Missionari della Consolata e anche con Padri e Fratelli, quando è possibile. Sono momenti forti in cui si respira la comunione della famiglia Consolata. Sono tre i momenti forti dell’anno: a gennaio si svolge la missione popolare di 10/15 giorni; tra marzo e aprile la “Pasqua giovane”, un’esperienza forte di Triduo pasquale per i giovani. Quindi si propone anche un ritiro per il “Progetto di vita” per giovani che vogliono approfondire il nostro Carisma. Oggi vi parlerò della missione d’estate, svoltasi nella provincia di Santiago del Estero (Argentina), nel mese di gennaio, che per l’emisfero Sud corrisponde alle vacanze di agosto. I tre pilastri portanti della missione sono: preghiera, formazione e missione. I ragazzi sono accompagnati personalmente. In dialogo con i parroci che ci ospitano, vengono sviluppati temi che si considerano rilevanti per la gioventù del luogo. Abbiamo sperimentato come i giovani, con molta fede e amore, hanno assunto la loro chiamata ad essere missionari nelle loro parrocchie. Anche giovani che si erano allontanati dalla Chiesa, alcuni si erano persi nei meamdri delle dipendenze. Per i nostri momenti di preghiera e riflessione abbiamo utilizzato la dinamica del circolo della fiducia: quattro o cinque giovani con un animatore condividevano la propria vita, con la sicurezza che tutto sarebbe stato custodito nella confidenzialità. Un altro fattore importante della missione è l’accompagnamento personale dei partecipanti. Siamo coscienti che la formazione che diamo in questi incontri “muove” qualcosa dentro, e siamo disponibili anche durante l’anno, grazie ai mezzi teconologici che oggi ci permettono comunicare con facilità. Abbiamo iniziato il viaggio il primo dell’anno, per arrivare alla meta il 2 o il 3 gennaio. Già il giorno 4 ci siamo spostati a 25 km dal centro, in un villaggio chiamato Urutaú. Lì c’è poca acqua, e abbiamo dovuto imparare ad usare bene l’acqua, la luce, sconnetterci dai cellulare per connetterci tra noi e con la gente. Nella visita alle famiglie ci siamo resi conto del bisogno di ascolto che ha la gente. Una persona ha detto che erano 30 anni che non riceveva una visita, e che questo momento le aveva restituito la speranza nella Chiesa. Nella zona, infatti, la presenza ecclesiale e pastorale è quasi nulla, e ci siamo sorpresi quando, il giorno dell’Epifania, abbiamo scoperto che non avevano mai celebrato la festa dei Re Magi, che in Argentina è molto sentita. Alla sera abbiamo terminato la festa con musica, balli e cibo insieme a tutta la comunità, ringraziando per la bella esperienza. Siamo ritornati quindi al centro di Monte Quemado, dove si sono uniti al gruppo i giovani della parrocchia. Le case da visitare erano molte, e abbiamo trovato molta gente con “sete” di ascolto. Le visite avvenivano più tardi, perché la temperatura oscillava dai 37 ai 50 gradi, con rischio di insolazione. Ma non ci siamo fermati! La gente non solo ci ha aperto le porte, ma il loro cuore, condividendo la vita e l’esperienza del Vangelo del giorno. Abbiamo benedetto le case, e la gente chiedeva la benedizione per la strada. Ogni giovane ha animato con i propri talenti la comunità cristiana. E’ chiaro, chiarissimo: la Chiesa ha bisogno di più giovani missionari, che portano la speranza con il vigore delle loro giovani vite! Stanchi, ma felici, siamo ritornati alle nostre case, colmi di gioia per gli incontri e la condivisione, in questo Anno Santo della speranza. Camilo condivide: Questa missione è stata per me un momento di condivisione della fede e della speranza, con quelle persone che abbiamo incontrato nelle case. E’ stata importante per me, perché la missione trasmette amore, gioia, fede, speranza e pace. Amore: è come sentire questo amore verso Gesù, vedendo la faccine tenere dei bimbi. Gioia: mi sento felice quando vedo che più giovani si uniscono per un’esperienza bella come la missione. Fede: è vedere i giovani, i bambini, che mai perdono quel piccolo seme di fede, e mai si danno per vinti. Speranza: siamo nel Giubileo della Speranza. Per me la speranza è che tu possa compiere i tuoi desideri, o la speranza che possa sorgere qualcosa di nuovo. Pace: sento che Gesù “abbonda” nel mio cuore, grazie a Lui posso fare ciò che faccio, come partire in missione e portare la sua Parola ad altre comunità. Mariam Altamiranda: Cos’è la missione per me???? E’ difficile rispondere in poche parole a una domanda che attraversa la vita: la missione è il mio cammino, è la mia vocazione fin da piccola, è crescere con uno stile di missione, quello indicato da San Giuseppe Allamano, e tutto questo ha dato senso a tutto. Questa missione estiva condivisa come famiglia Consolata è stata un incontro con amici, una sfida, una felicità, un reincontrarmi con me stessa e con Gesù… E’ stata abbracci con amici, discorsi profondi con giovani che Dio ha messo sulla nostra strada per accompagnarli e aver cura di loro. Una carica per tutto il resto dell’anno, per tutto ciò che Dio proporrà. Questa missione è stata canti gridati per la strada, camminate sotto il sole, Messe condivise, canzoni abbracciate, giri di chacarera. Questa missione per me è stata felicità. Suor Emma, mc
La festa di San Giuseppe Allamano in Guinea Bissau
Lo spirito di San Giuseppe Allamano si diffonde in Guinea Bissau. Noi, Suore Missionarie della Consolata presenti in questo Paese, abbiamo avuto la gioia di una meravigliosa celebrazione di ringraziamento per il dono del nostro Santo Fondatore, il cui spirito e Carisma sono presenti qui da più di 30 anni. La festa è iniziata attorno alle 09.30 con la celebrazione della Messa, presieduta da mons. José Lambra Cá, attuale vescovo della Diocesi di Bissau, insieme ad altri sacerdoti. I fedeli, in processione dalla parrocchia San Giuseppe, hanno portato le immagini della Consolata e di San Giuseppe Allamano in processione fino al luogo in cui è stata preparata la celebrazione: un “Santuario ecologico”, all’ombra degli alberi di mango! E’ stata una festa caratterizzata dalla semplicità e dal calore della gente, con belle danze, gioia e accoglienza, che hanno reso la celebrazione piena di colori e sorprendente. Canti in varie lingue, e anche un canto nuovo, composto da un giovane di Bor. E’ stato meraviglioso: un “mare” di gente, molte persone (non si potevano contare) erano presenti alla festa: la vita religiosa della Guinea Bissau, laici, e in particolare i Laici Missionari della Consolata, che si sono uniti in questo grande evento. Dopo la Messa, abbiamo condiviso il pranzo e la torta. Il motto: “Prima santi e poi missionari” ha toccato il cuore della gente, che è rimasta entusiasta, e con il desiderio di conoscere di più su di noi. Alcuni hanno espresso il desiderio di conoscere il gruppo dei Laici Missionari della Consolata e potervi aderire. “Sono stata felicissima di celebrare la santità del nostro Fondatore” dice Suor Purity “L’ho sentito davvero presente tra noi durante la celebrazione della sua festa e mentre ci offriva ancora il suo spirito. La sua presenza ha offerto nuova forza per la missione ad gentes, specialmente per la giovane e crescente chiesa della Guinea Bissau”. “Questa festa ci ha donato molta energia e voglia di continuare il cammino con passione missionaria” afferma Suor Noeli. “Qui veramente c’è un fertile campo di missione, di prima evangelizzazione. C’è tanto lavoro, eppure gli operai sono pochi” continua Suor Purity “La Canonizzazione di San Giuseppe Allamano mi ha colmato di energia, ci offre infatti una nuova forza per servire meglio, nella piccolezza, cercando la qualità e non la quantità, così come il Fondatore ci insegnava. Essere testimoni dell’amore di Cristo, evangelizzando più con le azioni che con le parole. Questo è quello che ci ha lasciato il nostro Fondatore: prima santi e poi missionari”. Suor Purity, mc
Gibuti: la dinamica della missione “un po’ più in là”
La missione in un contesto islamico è sfidante. Si fa con l’esempio della vita di ogni giorno. E il dialogo si realizza nel silenzio. Le «figlie» di san Allamano sono a Gibuti da 20 anni. E si spingono dove nessuno va. La prima grande, contundente esperienza per chi arriva a Gibuti, avviene quando si varca la porta dell’aereo e si è sopraffatti da un caldo infernale. Il piccolo aereo, nel piccolo aeroporto della piccola Capitale, parcheggia vicino alla costruzione (naturalmente piccola) che in pochi metri quadrati racchiude il controllo passaporti, la raccolta dei bagagli e il controllo doganale. Eppure, in tutta questa piccolezza, c’è da scendere la scala dell’aereo e percorrere pochi metri sotto il sole rovente, prima di entrare, con grande sollievo, nella costruzione con aria condizionata. E’ il primo test di sopravvivenza a cui sono sottoposti tutti coloro che arrivano a Gibuti! Lo raccontano anche le Sorelle, con un ricordo vivo: lo hanno vissuto anche loro quando, nel 2004, sono arrivate in questo Paese del Corno d’Africa: un lembo di terra desertica lambito dalle onde del Mar Rosso. GIBUTI, ALLE PORTE DEL MAR ROSSO La Capitale di Gibuti ha accolto per diversi anni la comunità delle Missionarie della Consolata. Atterrate nel mese di settembre 2004, insieme a una comunità di Missionari della Consolata, le Sorelle hanno speso un primo tempo per lo studio della realtà. Su orientamento del Vescovo, Mons. Giorgio Bertin, (francescano, oggi vescovo emerito) si sono poi inserite nelle attività della Chiesa locale, prestando servizio alla Caritas, in un orfanotrofio e nell’ambito sanitario. Fin dall’inizio è stato chiaro il tipo di annuncio del Vangelo possibile in una realtà musulmana: la carità e la testimonianza di vita. “Tutte le Sorelle si sono subito gettate dentro queste attività con tanto amore e con tanta gioia” racconta Suor Anna Bacchion, la decana della missione, ormai da più di 20 anni in Gibuti. E possiamo senza ombra di dubbio inserire anche lei in questo vortice di passione missionaria. Dopo i primi anni di missione, nella città arrivarono altre congregazioni religiose, dedite in particolare all’educazione. La Chiesa cattolica,infatti, è particolarmente impegnata nell’istruzione. Nell’alfabetizzazione utilizza uno speciale metodo chiamato LEC (lire, écrire, compter), e offre nella Capitale alcune istituzioni educative di livello superiore, molto apprezzate dalla popolazione. Ma nelle nostre Missionarie sorse un’inquietudine: “Tutta la Chiesa si trova nella Capitale. Noi siamo missionarie… Non c’è nessuna presenza di Chiesa nel resto del Paese… perché non andiamo dove non c’è ancora nessuno?”. Questa inquietudine ha alimentato un tempo di discernimento comunitario e – senza dare troppo nell’occhio – è diventata il dinamismo della missione in Gibuti: l’andare un po’ più in là, dove non c’è la Chiesa. Lo stesso dinamismo che ha spinto San Giuseppe Allamano a fondare due Istituti missionari per la prima evangelizzazione! UN PO’ PIÙ IN LÀ: ALI SABIEH Cittadina di circa 20.000 abitanti al sud del Paese, Ali Sabieh si trova al confine con l’Etiopia, da cui riceve l’acqua potabile, vari prodotti alimentari, e da cui arrivano tanti giovani in cerca di fortuna. Nel 2009 arrivano a Ali Sabieh due Sorelle: Suor Redenta e Suor Dorota. Nel 2013 si trasferirà tutta la comunità, lasciando a Gibuti solo una piccola casa, nella quale giungere quando si ritorna in capitale. Quando arrivarono, non c’era nessun cristiano a Ali Sabieh. Oggi, oltre alle Sorelle e al sacerdote, c’è solo una famiglia cristiana malgascia che si trova lì per lavoro. “L’evangelizzazione in Gibuti non si realizza facendo il catechismo. Si fa con la vita, amando e servendo le persone” afferma Suor Grace, da 12 anni a Gibuti. E dai saluti per strada e dai commenti ascoltati nell’ospedale (dove la missionaria lavora), si capisce che le Sorelle offrono il Vangelo attraverso una vita di donazione, ed è ben accolto dalla gente. “Loro vogliono che diventiamo musulmani e si intristiscono perché non ci convertiamo!” ride Suor Grace. Ma il dialogo con i musulmani è possibile in Gibuti? “Realizziamo il dialogo nel silenzio: per esempio, i giovani che vengono nella nostra scuola di alfabetizzazione, molte volte non hanno speranza per il futuro. Con gli anni, costruiamo insieme possibilità, e loro riconoscono il valore di questo servizio”. Ad Ali Sabieh, oltre alla scuola di alfabetizzazione, le Sorelle hanno aperto una scuola inclusiva, “La scuola per tutti” che raccoglie una ventina di bambini e ragazzi disabili; inoltre, si offre un corso di taglio e cucito alle donne: sono piccoli gesti rivolti alle persone più emarginate, e sono gesti che dicono molto alla gente. UN PO’ PIÙ IN LÀ: OBOCK Il sudore cola sul corpo a rivoli. L’umidità è alta e la temperatura estremamente elevata. Obock è l’ultimo “un po’ più in là” delle Missionarie della Consolata in Gibuti. Piccolo paese che si affaccia su uno stretto del Mar Rosso, dirimpetto allo Yemen. Dal suo porto ogni notte partono barche che raggiungono il Paese della penisola arabica, mèta ambita dei migranti etiopici che, dopo aver affrontato la traversata del deserto gibutino, si affidano ora a barconi precari gestiti da organizzazioni criminali, che assicurano l’arrivo allo Yemen, ultima tappa prima di raggiungere l’Arabia Saudita. Ma non tutti arrivano, e il Mar Rosso si converte in un cimitero di corpi, di sogni e di speranze, molte volte. Vi ricorda qualcosa tutto questo? Le Sorelle sono arrivate a Obock nel 2020: anche qui gestiscono una scuola di alfabetizzazione, ma al loro arrivo le aule era quasi deserte. Le famiglie (qui in maggioranza della tribù Afa) non sentivano la necessità di far studiare i propri figli. Come fare? Come Suor Irene Nyaatha: andando a visitare le famiglie e spiegando l’importanza dell’istruzione. Tutto questo sotto il sole cocente. Ma i risultati non hanno tardato ad arrivare: la scuola LEC conta circa 70 alunni, con una percentuale bassissima di abbandono scolare. Come ad Ali Sabieh si offre anche un corso di taglio e cucito per donne e ragazze. 20 ottobre 2024. Il giorno della Canonizzazione di San Giuseppe Allamano le Sorelle si sono riunite con tutta la Chiesa di Gibuti per celebrare la gioia
San Giuseppe Allamano: santità e Dio solo
Preparandosi al centenario della nascita al Cielo di San Giuseppe Allamano, la famiglia Consolata si mette in cammino con il suo amato Padre Fondatore, per sentirlo presenza viva e illuminante nell’oggi. S. Giuseppe Allamano aveva un concetto alto della missione: il suo non era solo filantropia, volontariato, impegno saltuario… Dato che la missione si aggancia all’azione salvifica di Dio, i valori dello “spirito” erano da lui ritenuti di fondamentale importanza. Dai suoi Missionari esigeva sempre il massimo, soprattutto in questo campo. La santità era condizione per la missione: “prima santi e poi missionari”; (alle Suore) “Buone non basta; migliori non è sufficiente; ottime!”; “Sì. Dio solo. Tutto di Dio, tutto da Dio, tutto in Dio” (Così vi voglio, p. 132). “Teniamo gli occhi fissi in alto! La nostra mira è là: Dio solo!” (Così vi voglio, p. 147). Nell’immaginario comune, invece, si pensava alla missione come ad un fare, alla realizzazione, a costruire, a fondare… Sempre e tutto sul versante dell’attività. Giuseppe Allamano ha puntato invece molto sulla “passività”, sulla accoglienza dei valori, sull’essere come generatore del fare (è efficace l’immagine della “conca” da lui usata sovente nelle sue conferenze). Mons. Vacha Emilio, sacerdote torinese, ha lasciato la seguente significativa testimonianza in occasione del processo per la Beatificazione dell’Allamano: «Nel 1903, andando a Roma a ritirare le reliquie del martire Adeodato, il Can. Allamano mi incaricò di cercare un “corpo santo” (reliquia ossea) anche per le Missioni della Consolata, ma due giorni dopo mi scrisse che non mi preoccupassi più della reliquia insigne, perché “il Santo sarà trovato in mezzo ai miei cari Missionari”». Quell’espressione non era soltanto un pio auspicio, ma rifletteva quella che fu invece la costante preoccupazione dell’Allamano: aiutare i suoi missionari a diventare santi. Non voleva reliquie di santi nell’Istituto, ma santi viventi! È significativo che i curatori di “Così vi voglio” abbiano messo come primo capitolo: “Santità e missione, fine dell’Istituto”. L’Allamano voleva infatti che la santità fosse sempre al primo posto: “Missionari e Missionarie sì, ma santi”. Fu il leitmotiv di tutto il suo insegnamento. Poiché le citazioni a questo riguardo si sprecano, se ne propone una soltanto: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre, battezzare, salvare anime; no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà» (Conf. IMC. III, 258) (suo manoscritto). «Tutti dicono che siete venuti a farvi missionari; invece, no: prima di tutto voi dovete dire: son venuto a farmi santo!» (Conf. IMC, III, 659). Il testo delle Costituzioni IMC, sulla scia dell’insegnamento del Fondatore, delinea succintamente il cammino per realizzare la vocazione missionaria: “Il fine che ci caratterizza nella Chiesa è l’evangelizzazione dei popoli; lo realizziamo per la gloria di Dio e nella santità della vita, nel senso inteso dal Fondatore, quando ribadiva: “Prima santi, e poi missionari” (n. 5). Alcune caratteristiche dello stile di santità secondo Giuseppe Allamano Mettersi in compagnia dei Santi S. Giuseppe Allamano non solo si cibava lui stesso degli insegnamenti e degli esempi dei Santi, ma ha voluto pure darceli come protettori o patroni. Il libro “Scegliendo fior da fiore” di P. Pavese Francesco ce lo dimostra ampiamente. Egli voleva che noi non solo pregassimo i nostri Protettori per chiederne l’intercessione, ma che essi diventassero nostri modelli di vita e ispirazione nel vivere la missione. Santità al plurale L’Allamano voleva che ci aiutassimo a farci santi; anche per questo ha voluto darci lo spirito di famiglia come caratteristica dell’Istituto. Dal tempo del Fondatore l’appello alla santità è sempre risuonato e risuona nei nostri Istituti. Basti ricordare il biennio sulla santità, celebrato negli anni 2006-2008. Suo frutto è stata anche la bella pubblicazione “Il missionario della Consolata, santo” (2012). Dalle nostre Direzioni Generali è venuto poi un appello forte a “farci santi assieme”. “La santità non è solo un ‘affare personale’ né solo il frutto di un percorso individuale. Come la missione tende alla comunione con Dio e tra di noi, così la santità di vita si alimenta della comunione e porta alla comunione; ideale, questo, caro al Fondatore che esortava: «Tutti insieme ci aiuteremo a farci santi»…”. Gesù – modello eccellente La santità dell’Allamano ha un forte timbro cristologico: Gesù è il modello per eccellenza della santità apostolica. Su questo aspetto l’Allamano era molto chiaro, tanto che indicava Gesù come modello di qualsiasi virtù. In tal modo il Fondatore puntava direttamente su Gesù nel suo cammino verso la santità: seguire lui, imparare da lui, imitare lui, fare unità con lui nell’Eucaristia. Gesù era sempre il punto di riferimento costante della sua vita e voleva che lo fosse anche per i suoi discepoli. Con costanza, nella scia di S. Giuseppe Cafasso Dopo la beatificazione di Giuseppe Cafasso che ci è stato dato come Protettore speciale, l’Allamano fece un commento interessante: «L’eroismo della sua virtù consiste nella costanza. Non consiste nei miracoli l’eroismo, ma nel farsi violenza, nello star sempre lì fermo nel buon volere, nel non perder tempo: questo è roba nostra. Io ammiro ogni giorno più la vita di quest’uomo, perché non è andato a salti, no, è sempre andato diritto; la sua strada era quella e… avanti; e questo l’ha fatto per tutta la vita. Sempre la stessa fede, lo stesso amor di Dio e del prossimo; sempre prudente, sempre giusto, sempre temperante… non gli manca niente […], lui andava sempre avanti; faceva sempre tutto bene» (cfr. Così vi voglio p. 178). Per la riflessione personale “Il missionario della Consolata, santo”, Roma 2012. Così vi voglio, cap. 1. F. Pavese, “Scegliendo fior da fiore”, 2014 La Parola di Dio, l’Eucaristia, la devozione alla Consolata erano gli aspetti salienti nel cammino di santità di S. G. Allamano. Lo sono anche nella mia vita? Nel centenario della nascita al Cielo del P. Fondatore, quale aspetto della sua santità sento di dover valorizzare maggiormente nella mia vita? Quale santo, tra quelli propostici dall’Allamano, mi fa maggiormente da maestro e guida e perché?