Le Missionarie della Consolata con il popolo quechua in Bolivia C’è abbastanza carburante nella Jeep (negli ultimi tempi, non sempre è così…) e le Missionarie di Vilacaya (piccolo paesino a 3.000 metri di altitudine sulle Ande boliviane) decidono di andare a visitare due famiglie che vivono in borgate a circa 10 km di distanza. Il veicolo sobbalza, superando pietre e buche, mentre alza il polverone dietro di sé. Entrambe le famiglie vivono in case dipinte di bianco e azzurro, costruite da un progetto del governo, il cui Partito si contraddistingue proprio per questi due colori. Entrambe sono composte da due genitori e sei figli, più o meno della stessa età, entrambe lottano per assicurare un oggi e un domani ai piccoli di casa. Non è facile: Vilacaya, e in generale il sudovest della Bolivia è colpito da una progressiva siccità, che rende quasi impossibile la vita delle famiglie contadine, appartenenti all’etnia quechua. Ci sono anche differenze: la prima famiglia cerca con tutti i mezzi di migliorare le sue condizioni, mentre la seconda è prostrata anche dalla piaga dell’alcolismo, e alle volte i bambini soffrono l’abbandono. Ma anche questa è una faccia della povertà. Il primo amore: Poopó e i minatori Le Missionarie della Consolata sono approdate in Bolivia nel 1991, ma se ne sono “innamorate” molto prima: nel 1989 due Consigliere generali – Suor Renata Conti e Suor Evelia Garino – visitarono diversi Paesi dell’America Latina, in vista di una nuova presenza missionaria accanto ai popoli nativi. Passarono a Poopó, centro minerario del Dipartimento di Oruro e ne rimasero profondamente toccate. Come Istituto, però, si scelse un’apertura a Tencua, nell’Amazzonia venezuelana. Succede. Ma la storia non finì nel nulla: la Direzione generale propose alle Sorelle presenti in Argentina di riflettere su una possibile apertura a Poopó. E questa avvenne, appunto, nel 1991. Quella di Tencua, come quella di Poopó, è stata una risposta all’opzione che, gradualmente, le varie presenze delle Missionarie della Consolata nel Continente americano hanno fatto propria: la scelta della missione ad gentes tra i popoli indigeni e originari. All’epoca, il “movimento indigenista”, appoggiato da ong e da Chiese di varie denominazioni, era molto attivo e rivendicava i propri diritti. Fu un tempo intenso, nel quale la presenza dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si concentrava nell’impegno per la Giustizia e la Pace, e in progetti di promozione umana. “Era chiaro che la nostra presenza non doveva essere una risposta assistenzialista” ricorda Suor Marisa Soy, una delle prime missionarie giunte in Bolivia. La situazione socio economica dell’altipiano andino, all’inizio degli anni Novanta, era preoccupante: la speranza di vita era bassa e la mortalità infantile molto frequente. Le Sorelle iniziarono a visitare le famiglie per rendersi conto della condizione reale della gente. A livello di Chiesa, già esisteva un’equipe diocesana di Pastorale sociale, quindi la collaborazione fu immediata e molto positiva. “Conoscevamo i progetti dell’equipe, contribuivamo con il nostro lavoro e anche economicamente” condivide Suor Marisa. Oltre all’impegno sociale, le Sorelle partecipavano alle Comunità di Base e accompagnavano la Pastorale Giovanile. Vilacaya: tra i contadini quechua Dopo 20 anni di presenza, nel 2012 la riflessione porta a un “cambio di domicilio”: la Parrocchia di Poopó ha i suoi leaders, le condizioni socioeconomiche della cittadina sono migliorate. La sfida di lasciare terreni dissodati e conosciuti, per ricercarne altri e iniziare da zero (o quasi) fa parte della missione ad gentes. Con le lacrime agli occhi, ma con nel cuore tanta gratitudine per la missione vissuta, nel 2013 si chiude la comunità di Poopó e si apre quella di Vilacaya, nel Dipartimento di Potosí, una vasta regione del sud del Paese, in cui la presenza ecclesiale è quasi nulla. L’opzione per i popoli indigeni dell’Istituto ha compiuto passi significativi nel tempo. Oggi si dà molta attenzione allo studio della cultura, della lingua e della spiritualità del popolo nativo, come riconosce Suor Marisa che, dopo una ventina d’anni vissuti fuori Continente, è ritornata in Bolivia, questa volta a Vilacaya: “Qui ho percepito un impegno maggiore della comunità delle Missionarie nel conoscere la cultura e accompagnare la gente nella riflessione sulla propria identità. E’ bello che protagoniste siano le persone e noi delle Sorelle che le accompagniamo”. Con molto sforzo e convinzione, i popoli andini cercano di armonizzare le proprie radici originarie, la fede cristiana e le sfide del mondo globalizzato (paradigmi culturali nuovi e attraenti, il cambio climatico, le politiche nazionali). Suor Nadia Leitner ha vissuto diversi periodi in Vilacaya, fin dai primi passi nella formazione iniziale. Oggi è la sua Chiesa di origine, in Mendoza (Argentina) ad averle dato il mandato per la missione in Bolivia: “Questo mandato è un segno di fiducia e speranza, la certezza che non sono sola, e che non cammino per conto mio” ci racconta Suor Nadia. “Per me significa vivere l’ad gentes del Continente America. Vivere con il popolo quechua ha tanto da insegnarmi”. Vilacaya, oggi Suor Marisa, Suor Nadia e Suor Maria Elena rientrano dalla visita alle due famiglie con il cuore colmo di emozioni e interrogativi: Che ne sarà di questi bambini, in un ambiente così sfidante? Saranno migranti, come tanti altri, alle periferie delle città, o nei cunicoli delle miniere? Non ci sono risposte a queste domande, ma c’è una risposta all’oggi di queste persone: la presenza delle Suore e la visita che fanno alle comunità e famiglie, che reca sempre tanta gioia. Si percepisce molta solitudine e senso di abbandono nella popolazione quechua della zona. “Oggi Dio mi sta chiedendo di stare qui, dare il meglio di me, perché ogni persona possa sentirsi amata da Dio, un Dio che non si dimentica dei suoi figli. Condividere la vita con la gente, significa dire loro che sono persone che hanno valore, che i loro sogni valgono” Dice Suor Nadia. E questa è la consolazione che fa vivo e presente lo spirito di San Giuseppe Allamano nella vita delle sue figlie. Anche ad alta quota. Suor Stefania, mc Questo articolo è stato pubblicato dalla Rivista Missioni Consolata. Puoi scaricarlo qui:
La Donna della Risurrezione
Testo: Gv. 20,1-18 1 Nel giorno dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. 3 Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5 Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7 e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. 8 Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9 Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti. 10 I discepoli intanto se ne tornarono di nuovo a casa. 11 Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi? ”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. 15 Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi? ”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. 16 Gesù le disse: “Maria! ”. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbunì! ”, che significa: Maestro! 17 Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. 18 Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore” e anche ciò che le aveva detto. I quattro Vangeli concordano tutti su un dettaglio di vitale importanza che riguarda la mattina di Pasqua: nelle prime ore del giorno, quando era ancora buio, le donne andarono alla tomba di Gesù. I particolari su quella visita mattutina, variano da Vangelo a Vangelo, ma la presenza delle donne è un dato costante. Come avviene con la presenza delle donne alla crocifissione di Gesù, la tradizione non si pone domande su questa ulteriore dimostrazione di fedeltà da parte loro. La accetta semplicemente come una parte essenziale della storia della risurrezione. L’episodio di Maria Maddalena nel cap. 20 di Gv. è il più dettagliato dei quattro racconti sulle donne al sepolcro di Gesù. Sì divide in due scene: 20,1-10: Maria alla tomba vuota. 20,11-18: Maria e Gesù risorto. Primo momento: I vv. 20,1-10 affermano che Maria è la prima testimone della tomba vuota. Quando vi giunge, lei vede che la pietra che chiudeva il sepolcro è stata fatta rotolare via (20,1). Si mette a correre e da la notizia a Pietro e al discepolo prediletto (20,2). Fa presente quella che sembra essere l’unica spiegazione logica dei fatti: qualcuno ha portato via dalla tomba il corpo di Gesù e non lo si ritrova. L’angoscia di Maria rispecchia lo sconvolgimento del mondo per la tomba vuota: ancora oggi tanti studiosi ed esegeti discutono su questo dato di fatto. Finché la comunità non incontra Gesù risorto non vi sono categorie con cui comprendere la tomba vuota Sulla base delle parole di Maria, Pietro e il discepolo prediletto corrono al sepolcro (20,3-4), entrano all’interno (20,5-8), ma si conosce soltanto la reazione del discepolo che Gesù amava. Il v. 8 afferma che egli: «vide, e credette». La sua fede è soltanto agli inizi infatti il racconto prosegue dicendo che non sapevano ancora della risurrezione (20,9). I discepoli maschi, come Maria, non trovano parole nelle loro esperienze precedenti per descrivere la tomba vuota. Maria ha reso testimonianza al mistero perfino nella sua angoscia, mentre Pietro e il discepolo prediletto sono rimasti silenziosi e ritornano al loro mondo di paura. Il Secondo momento (20,11-18) ha inizio con Maria che si ritrova di nuovo alla tomba, sola e in lacrime. Lei non ha paura, lei ama e rimane fedele anche nel buio e nel non senso delle situazioni, anche quando tutto sembra smarrirsi e perdere significato. Come Pietro e il discepolo prediletto prima di lei, ella ora si china a guardare nel sepolcro. Chinarsi, in greco è un verbo che esprime l’attitudine di chi entra nel mistero, quasi a significare che Maria è sollecitata ad entrare nella fede, e ad accogliere la pasqua del Cristo, anche se non vede, anche se non comprende. In questo suo chinarsi a guardare il sepolcro vuoto, Maria si sente interpellata da due angeli, che le dicono: «Donna, perché piangi?» (20,13). L’appellativo «donna» è lo stesso termine che sarà usato da Gesù risorto per parlare a Maria in 20,15. Gli Angeli chiamandola “Donna” richiamano la sua identità più profonda e Maria guardando la tomba vuota risente la voce del maestro quando a era entrata nella casa di Simone per ungere il corpo di Gesù (Lc.7,36-50). La donna del profumo in Luca 7 entra in scena in veste di emarginata, esclusa dal mondo sociale, dal sistema religioso, dal banchetto, dalla tavola, dal dialogo. Essa non ha nome, cultura, prestigio, influsso, autorità e, sicuramente, non dispone neppure di molti mezzi economici. La donna del profumo ha soltanto l’ardire e l’audacia di sfidare le strutture più potenti della società del suo tempo. Essa è sola. È peccatrice e lo sa. Gode di cattiva reputazione e lo sa. Non fa assegnamento su alcun gruppo di appoggio;
Santità e speranza – San Giuseppe Allamano
Verso il Centenario della nascita al Cielo di San Giuseppe Allamano, i suoi figli e figlie si radunano attorno a Lui per ascoltare ancora una volta i suoi insegnamenti. Oggi sulla speranza e la santità. “Paolo era un pescatore solitario che viveva in riva al mare. Dopo aver perso la moglie, non era mai più andato a pescare con la sua barca. Le giornate passavano lente, e non aveva più senso per lui solcare le onde che amava tanto. Una notte d’inverno una forte tempesta si abbatté sul piccolo villaggio: i venti urlavano e le onde erano come mostri furiosi. Paolo guardò tutto attraverso la finestra, finché, tra i lampi e i tuoni, vide una piccola luce lampeggiare in lontananza. Era il faro che rimaneva acceso, fermo, nonostante tutto il caos che lo circondava. La mattina dopo, apprese che una barca di giovani pescatori si era persa in mare e che era stata la luce del faro a guidarli verso la riva. Il giorno dopo, qualcosa è cambiato. Pulì la sua vecchia barca, sistemò le vele e al tramonto andò a pescare. Paolo ha capito che, a volte, la speranza è proprio questo: una piccola luce accesa nella tempesta.”. Questa piccola storia ci aiuta a capire che la speranza non elimina la tempesta, ma indica una strada, non richiede grandi certezze, ma solo piccoli passi verso la certezza. Nel mondo di oggi, circondato da crisi e disperazione, la speranza non è un lusso, è una necessità vitale. E, come il faro per i naviganti, rimane fermo, acceso, invitandoci a continuare, anche quando tutto sembra perduto. La parola speranza porta in sé un silenzioso dinamismo. In latino, spes significa “fiduciosa attesa”, ed è legato al verbo sperare (aspettare con fiducia). In greco, la parola corrispondente è elpís (ἐλπίς), che si riferisce anche all’attesa, ma con una connotazione più esistenziale: una fiducia rivolta al futuro, spesso oltre il visibile. Papa Francesco, in questo Anno Giubilare, ci ha invitato a vivere la nostra fede come un cammino, ricordandoci che la vita cristiana è un continuo pellegrinaggio verso Dio. La speranza, in questo contesto, non è semplicemente ottimismo o desiderio di un futuro migliore, ma virtù teologale basata sulla certezza che Dio è fedele alle sue promesse: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio”. San Giuseppe Cafasso, modello di speranza San Giuseppe Allamano additava allo zio Giuseppe Cafasso un modello di speranza che tutti i suoi missionari dovevano seguire: “Aveva tanta speranza infondere anche negli altri. Quando gli si diceva che la porta del paradiso è stretta, rispondeva: «Ebbene, passeremo uno alla volta!». Infondeva la speranza anche nei condannati a morte, dando loro le commissioni per la Madonna e, dopo l’esecuzione, esclamava: «Un santo in più!». E soggiungeva anche: «Quei birbanti ci rubano il paradiso!»… Dunque sperare, fortemente sperare!” La speranza non è solo una virtù teologale astratta, ma una forza concreta che dà senso e orientamento alla vita, anche nelle situazioni più drammatiche, come l’approssimarsi della morte. Siamo invitati a vivere una speranza attiva, contagiosa, piena di fiducia nell’amore di Dio, cioè, come missionari, siamo chiamati ad essere fonti di speranza per gli altri, anche (o soprattutto) quando tutto sembra perduto. La fiducia: la speranza più pura Nella sua spiritualità, Giuseppe Allamano ci parla della fiducia come della forma più alta della speranza, la sua “quintessenza”. La parola “quintessenza”, che deriva dal latino quinta essentia, suggerisce tutto ciò che c’è di più puro, di più essenziale: dobbiamo confidare in Dio al di sopra delle nostre debolezze, al di sopra delle nostre cadute, al di sopra della nostra logica umana. C’è nella nostra vita un eterno conflitto tra il non fare nulla e la grandezza della nostra vocazione missionaria, ma non scoraggiamoci perché questa è un’esperienza comune tra coloro che cercano di vivere autenticamente il Vangelo: si sentono indegni, incapaci, scoraggiati. Ma la risposta non sta nell’arrendersi, ma piuttosto nell’immergersi più a fondo nella fiducia. Un missionario senza fiducia diventa “un tormento per se stesso e per gli altri”. Senza fiducia non c’è gioia, e senza gioia non c’è Vangelo che possa essere trasmesso. La fiducia non è quindi solo una virtù teologale, ma un dovere apostolico perché è contagiosa, genera pace e porta frutto: “Amo la preghiera sulla fiducia in Dio: un giorno te la porterò”. Non perderò mai la fiducia in Te, mio Dio. Oh, com’è bello!” Questa fiducia ha bisogno di essere coltivata, alimentata e condivisa. Il Salmo 124 – “Quelli che confidano nel Signore sono come il monte Sion: esso non vacilla, rimane saldo per sempre” – ci esorta a possedere questa fermezza perché essa sarà il fondamento della nostra Missione! La speranza nell’essere missionario La speranza trasforma profondamente la vita del missionario, portandolo a vivere con spirito nuovo e pasquale, cioè a vivere alla luce della Pasqua di Cristo, coltivando un nuovo modo di essere, di pensare, di agire e di relazionarsi con Dio, con gli altri e con la propria storia. Qui presento alcune delle sfide che San Giuseppe Allamano ci presenta, sempre ancorate alla speranza: – Essere missionari nuovi e pasquali che vivono con una prospettiva rinnovata, senza paura della storia o del futuro, sempre aperti alla novità del Risorto: “Non dire dunque: «Chi sa se mi salverò?», ma: «Voglio salvarmi e quindi voglio emendarmi dei miei difetti e non scoraggiarmi»”. – Essere missionari contemplativi e poveri, capaci di riconoscere Dio nei deserti della vita, radicati nella storia ma sempre con lo sguardo rivolto al futuro: “Ora, quando si cammina alla presenza di Dio, si fanno le cose bene, con perfezione”. – Amare il proprio tempo vivendo fedelmente il presente, l’“ora” che ci è
Il potere davanti a Dio: la lezione nascosta di Luca 23
Il mondo biblico è solitamente abbastanza diffidente nei confronti del potere. È vero, l’immagine della presenza definitiva di Dio nella storia è legata a Davide (dapprima come re ideale, poi come modello del re messianico), ma in fondo anche la monarchia viene narrata non come una scelta di Dio, ma come una richiesta del popolo a cui il Signore, un po’ controvoglia, acconsente. E dai poteri internazionali Israele è stato minacciato, distrutto e deportato, perseguitato… tanto che nell’Apocalisse si sostiene che ogni forma di potere viene dal male, che a volte prende le forme di Dio ma è sempre completamente negativo. C’è però, insieme a tanti altri, un brano che si presta a essere riletto con più calma, tanto più che di solito non abbiamo il tempo di soffermarci a considerarlo, perché spesso lo ascoltiamo nel lungo racconto della passione di Luca. Lo troviamo all’inizio del capitolo 23 di Luca. Perché solo in un vangelo? Sto parlando del curioso intreccio per cui Pilato, dopo il primo interrogatorio di Gesù, decide di inviarlo da Erode, che si trovava a Gerusalemme per la Pasqua. La prima curiosità con cui possiamo decidere di fare i conti è che questo brano compare solo nel vangelo secondo Luca. Perché alcuni episodi sono riportati da tutti i vangeli (in realtà praticamente solo la passione, e non in tutti i particolari, appunto), altri dai tre “sinottici” (e sono la maggior parte: stiamo riferendoci a Matteo, Marco e Luca), altri da due o da uno solo? In buona parte non lo sappiamo. È abbastanza chiaro che Matteo e Luca, mentre scrivevano i loro vangeli, avevano davanti il testo di Marco e con tutta probabilità un altro scritto che a noi non è arrivato. In parte, però, hanno anche fonti proprie, esclusive, o almeno scelgono di riportare ciò che per gli altri non è altrettanto interessante. È infatti altrettanto probabile che i materiali a disposizione dei quattro evangelisti fossero molto più ampi di quelli che effettivamente entrano poi a far parte del loro testo. Giovanni lo dice anche esplicitamente, con una certa esagerazione: «Se si scrivessero una per una tutte le cose dette e fatte da Gesù, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25), ma questi segni «sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo e perché, credendo, abbiate la vita» (Gv 20,31). L’obiettivo ultimo della stesura dei vangeli è quindi non tanto la conoscenza di particolari sulla vita di Gesù, ma la fede in lui. Nello scegliere i brani da inserire, però, di certo influiscono anche interessi e sensibilità degli autori. Luca, ad esempio, si svela anche negli Atti degli Apostoli un autore attento al mondo politico e sociale che lo circonda. E infatti ciò che ci dice su un passaggio del processo a Gesù che riferisce solo lui è estremamente verosimile e interessante. La situazione dell’impero Tutti noi sappiamo che al tempo di Gesù in Israele dominava l’impero romano. In realtà questa affermazione è un po’ troppo generica e imprecisa. Noi, infatti, siamo inevitabilmente portati a pensare all’impero romano sul modello degli imperi seicenteschi e settecenteschi, come a un potere estremamente accentratore che ha tutto sotto controllo in un modo molto omogeneo. L’impero romano non era così. Quando si affacciava in un’area nuova, spesso selezionava alcuni centri, non necessariamente i più grandi, ma che si erano affidati a lui o sembravano in qualche modo più affidabili, e questi venivano caricati di maggiore potere e importanza. Altrove si consentiva magari che mantenessero i propri tribunali, o una propria gestione delle tasse, o un’amministrazione in parte autonoma. Il principio era quello del “dividi e comanda”. Se per caso in quella regione si fosse pensato a una rivolta contro Roma, le speranze di successo non avrebbero potuto che derivare dalla compattezza contro un nemico molto forte. Ma, in caso di rivolta, qualcuno avrebbe avuto da perderci più di altri, e di sicuro avrebbe fatto la spia. È un sistema che i romani applicavano in modo generalizzato e con molta astuzia, e che infatti si svelò molto utile ed efficace. Agli amministratori locali l’impero chiedeva sostanzialmente tre cose. La più importante era che garantissero l’ordine pubblico. Se c’era questo, su tutto il resto si poteva discutere. Poi, chiedevano tasse. Infine, e solo se sentivano di potersi fidare, soldati. Ma se trovavano un potere locale che garantiva l’ordine pubblico, normalmente lo lasciavano stare, si assicuravano che non prendesse iniziative di politica estera in contrasto con Roma, e su tutto il resto scendevano volentieri a patti. Nell’area di Israele i romani avevano visto l’ascesa di Erode il Grande, personaggio spietato anche con i suoi stessi figli ma che governava con sicurezza i propri territori, e gli avevano concesso una notevole autonomia, stimandone il polso con cui governava, senza mai mettersi contro Roma. Alla sua morte, dapprima i romani rispettano il testamento di Erode, che divide gran parte del suo territorio tra i suoi tre figli più grandi superstiti, più altri pezzi più piccoli in varie donazioni. Galilea e Gerusalemme La parte più prestigiosa, che comprende Gerusalemme, viene affidata ad Archelao, che però non convincerà i romani, che dieci anni dopo lo depongono e si occupano direttamente della Giudea e Samaria. In realtà applicano anche lì la solita tattica di delega sotto minaccia. Concedono al sinedrio l’amministrazione ordinaria dell’area, fatte salve le condanne a morte che restano di responsabilità romana e gran parte delle tasse; se però qualcosa non fosse andato bene, se ci fossero stati disordini, il sinedrio sarebbe stato ritenuto responsabile (ecco perché tanta ansia anche nei confronti di movimenti non politici come quello di Gesù). I romani mantenevano comunque due coorti in zona, come sorveglianza armata, e un prefetto che rappresenta l’autorità romana. Certo, si trattava di una zona piccola, povera, senza un potere pieno e lontana da Roma; non un posto appetibile per chi puntava alla carriera, e infatti vengono mandati a Gerusalemme prefetti o senza particolari capacità e ambizioni o in castigo. Dal 26 al
Festa della Consolata 2025
La comunità più recente dell’Istituto celebra la prima festa della Consolata: le Sorelle di Urgench, in Uzbekistan, ci regalano una bellissima preghiera di lode insieme alla piccola comunità cristiana! La Consolata ti benedica e ti protegga, buona festa!
Novena alla Consolata: nono giorno
LA CONSOLAZIONE È MISSIONE
Novena alla Consolata: ottavo giorno
LA CONSOLAZIONE È ACCOGLIENZA
Novena alla Consolata: settimo giorno
LA CONSOLAZIONE È SALVEZZA
Novena alla Consolata: sesto giorno
LA CONSOLAZIONE È GIOIA
Novena alla Consolata: quinto giorno
LA CONSOLAZIONE È SPERANZA
Novena alla Consolata: quarto giorno
LA CONSOLAZIONE È UN SEGNO
Novena alla Consolata: terzo giorno
LA CONSOLAZIONE È DIALOGICA, È OFFERTA
Novena alla Consolata: secondo giorno
LA CONSOLAZIONE, UN DONO, IL SUO DONO A NOI
Novena alla Consolata: primo giorno
LA PAROLA CONSOLAZIONE
Inizia la novena a Maria Consolata
Una novena molto cara e importante per la famiglia Consolata, che si raccoglie sotto il manto della Fondatrice e Patrona: la Madonna Consolata
Missione. Il dialogo della vita
L’esperienza dei Missionari della Consolata in Corea del Sud, impegnati nel dialogo interreligioso, che nella quotidianità si traduce nel DIALOGO DELLA VITA
La Consolata: presenza viva nel cammino della santità
Verso il Centenario della nascita al Cielo di San Giuseppe Allamano, i suoi figli e figlie si radunano attorno a Lui per ascoltare ancora una volta i suoi insegnamenti. Oggi sullpresenza viva della Consolata nel cammino di santità Maria con la Comunità attende il dono dello Spirito Santo “Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra“. (Atti 1, 8) Il dono dello Spirito Santo promesso da Gesù viene effuso sulla comunità che ha incontrato il Risorto e ora la rende testimone, missionaria della gioia del Vangelo, in Giudea, Samaria e in tutti i confini della terra. “Dopo la risurrezione, tocca proprio a loro portare avanti questa missione, gettare sempre e nuovamente la rete per immergere nelle acque del mondo la speranza del Vangelo, navigare nel mare della vita perché tutti possano ritrovarsi nell’abbraccio di Dio.” Una missione affidata alla Chiesa e a noi oggi, in questo frangente della storia, con infinito bisogno di sentire la Parola che salva e che ravviva la speranza. Maria, la Madre, era lì, in mezzo alla comunità, radunata in preghiera e in attesa dello Spirito (cfr. Atti, 1, 14). Lei che ben conosce la sua forza e la sua azione da quando, nell’Annunciazione, l’aveva avvolta nella Sua ombra e l’aveva resa Madre (Lc 1, 35). «Tra lei e lo Spirito Santo c’è un vincolo unico ed eternamente indistruttibile che è la persona stessa di Cristo, “concepito per opera dello Spirito Santo e nato da Maria Vergine”». Lei, la donna del SÌ a Dio, con incrollabile fedeltà e fiducia, rinnova il suo Fiat, sempre, in ogni circostanza, negli eventi lieti e in quelli tristi, quando appare chiaro il disegno di Dio e quando è meno comprensibile e non può fare altro che custodirlo nel cuore, quando il suo passo diventa leggero e la porta veloce all’incontro dell’altro e quando rimane ferma, inchiodata alla croce del Figlio, nel più profondo e straziante dolore e ancora le viene chiesto di diventare Madre, grembo che genera una nuova umanità che nasce dal cuore trafitto di Gesù. È l’ora del Figlio e lì è presente la Madre. La sua vita è stata un perenne SÌ alla volontà di Dio per lei. La Consolata ci conduce a Gesù San Giuseppe Allamano diceva che “prima di essere Consolata, Maria era stata Addolorata”. Lei ha vissuto la passione e morte in profonda comunione con Gesù e nel mistero della Risurrezione è stata pienamente Consolata. La Consolazione è dono dello Spirito, il Consolatore, continuamente presente nel cuore di Maria, vera dimora di Dio. Comprendiamo perché Maria, la Consolata, che conosce Dio e conosce le vie di Dio, ci è guida sicura nel cammino che conduce a Lui. L’Allamano diceva: “Voi dovete essere santamente superbe di essere sotto la protezione della Consolata; portate il nome della Madonna e questo deve spingervi a rendervi ciò che dovete essere. Dovete portare bene il vostro nome ed avere un’alta divozione alla Madonna. Tutti i Santi erano divoti della Madonna: è un segno di predestinazione.” Ascoltiamo la sua voce, dolce e rassicurante, che ci dice ancora “Qualsiasi cosa vi dica, fatela” (Gv, 2, 5). Lei, ci invita a non avere paura, ad aprire il cuore a Dio, a diventare terreno fertile dove Dio ci rende capaci di portare frutti abbondanti di vita. Donne e uomini di Dio che vivono un processo di trasformazione che ci rende testimoni trasparenti dell’amore di Dio, quindi, veramente missionari a tutti gli effetti. Persone non più con lo sguardo rivolto verso il basso, centrati su se stessi, negli spazi angusti e ristretti dove un “io” sempre più esigente cerca di rinchiuderci. È lo Spirito che viene come vento impetuoso, in una nuova Pentecoste, entra negli spazi chiusi, varca le porte blindate e ci apre alla luce e al calore dell’Amore che salva. Ci rende persone libere, capaci di riconoscere come Dio oggi ci visita, visita il nostro mondo avvolto nelle tenebre, nella angoscia e nel dolore. “Quante volte Giuseppe Allamano ha rivolto il suo sguardo alla Consolata e quante volte si è lasciato guardare da Lei! Anche noi desideriamo contemplare il suo volto e lasciarci guardare da Lei, qui sta la nostra forza.” La Consolata, nostra Madre Tenerissima Il mese di giugno quest’anno è un mese particolarmente carico e gravido di grazia, dono di Dio. Ci prepariamo a vivere la Pentecoste e a vivere la novena e festa della nostra mamma, la Consolata, in questo anno benedetto e santo del Giubileo della Speranza. Dio Padre, che ci ama profondamente e vuole radunare l’umanità attorno a Sé, che vuole che ogni figlio e figlia viva sicuro a casa con Lui, che conosca il suo cuore e il grande amore per ognuno in particolare, è disposto a raggiungerci lì dove siamo, nella situazione che viviamo, dove la nostra strada sta portando, per farci conoscere il Suo cuore e il Suo infinito amore, tocco inconfondibile che ci fa balzare e seguirlo sulla Sua strada. Allora anche noi saremo sensibili e attenti a riconoscere e realizzare nella nostra vita la volontà di Dio per noi, che si rivela attraverso mediazioni che il Signore mette sulla nostra strada. E in questo percorso è tanto dolce e tanto bello avere accanto a noi la Consolata, la madre tenerissima. “Non è infatti la SS. Vergine sotto il bel titolo di Consolata la nostra Madre, e noi i suoi figli? … Siamo figli della Consolata, e figli prediletti, ma praticamente ci dimostriamo sempre tali, con invocarla sovente, con onorarla in tanti modi possibili, e con ricorrere a Lei colla confidenza di figli tenerissimi? Procuriamo di ascoltarne anche i suoi desideri, che sono di farci buoni e santi.” Per la riflessione personale Scarica la scheda:
Dio ha creato tutto per la vita
Spesso chi non conosce troppo bene la tradizione cristiana (e, ahimè, a volte anche chi la conosce) immagina la Bibbia come un insieme di prescrizioni: chi le adempierà tutte, o almeno una buona parte, avrà un premio, gli altri un castigo. Non si tratta però di una presentazione adeguata, perché ci troveremmo di fronte a norme molto disparate e incoerenti, e persino perché non avremmo la certezza su quali testi dovremmo prendere in considerazione. La Settanta A volte pensiamo infatti che la “Bibbia” sia un insieme ben definito di scritti, ma non è così. Il popolo ebraico aveva iniziato a comporre e custodire lungo i secoli un elenco molto variegato di libri, accomunati dal fatto di essere scritti, appunto, in lingua ebraica. Col tempo quegli scritti erano diventati assolutamente centrali nella vita religiosa, al punto che secondo alcuni ebrei non era più indispensabile recarsi al tempio, ma era invece opportuno dedicare del tempo allo studio della scrittura, almeno una volta alla settimana. Passano i secoli, e sempre più ebrei vivono in contesti culturali vari, dove si perde anche l’uso della lingua ebraica. Confrontarsi con la scrittura diventa sempre più difficile, finché non si inizia a tradurre la Bibbia nella lingua allora più diffusa, il greco, che era un po’ come per noi l’inglese: anche chi non lo parlava come madrelingua, comunque lo imparava o lo capiva almeno un poco. Ovviamente c’era chi pensava che non fosse rispettoso leggere la parola di Dio in greco, ma al riguardo ci si “inventa” una leggenda molto pittoresca. Si racconta infatti che un responsabile della biblioteca di Alessandria, volendo avere anche la sapienza ebraica in quella che era la raccolta di libri più grande dell’antichità, decise di chiedere a Gerusalemme che gli inviassero dei dotti in grado di scrivere in greco. Ne arrivarono settantadue, ognuno dei quali lavorò da solo, per settantadue giorni, alla traduzione della Bibbia, che alla fine risultò uguale per tutti. Era un modo per suggerire che anche il testo greco fosse ispirato, perché solo da Dio poteva venire una concordanza di quel tipo. La scelta ebraica, al di là di questa leggenda, era stata importante, perché implicava che “parola di Dio” non erano le singole precise parole dette (altrimenti sarebbe stato blasfemo tradurle in un’altra lingua), ma il loro senso. E che si poteva essere ebrei senza capire l’ebraico, con un modello di religione potenzialmente universale che non era la consuetudine nell’antichità. Tuttavia, quella che noi oggi definiamo la Bibbia greca, o “Settanta”, dai settantadue leggendari traduttori, non coincide perfettamente con il Primo Testamento ebraico. Alcuni testi vengono lievemente ampliati o cambiati, ma soprattutto nella Settanta troviamo libri che non esistevano in ebraico. Uno di questi è il libro della Sapienza. La letteratura sapienziale Si tratta di un libro che rappresenta un genere intero. Se infatti nel Primo Testamento troviamo testi che raccontano vicende storiche o che si presume lo siano, e poi anche inni e leggi, rintracciamo insieme libri (anche in ebraico) che hanno una pretesa diversa. Il libro dei Proverbi, la Sapienza, il Siracide non partono infatti da eventi storici, ma da riflessioni per così dire fuori dal tempo. Sono saggi di sapienza umana, di riflessioni “di buon senso” o di sapienza trasmessa di padre in figlio. Non è scontato che si trovino nella Bibbia. Potremmo infatti immaginare, in un’impostazione rigida, che solo tutto ciò che viene da Dio meriti ascolto e attenzione, mentre quello che scaturisce dalla riflessione umana potrebbe essere semplicemente sminuito come trascurabile. Non è così, nella Bibbia. Entrano invece a far parte del canone libri che sembrano di buon senso, di riflessione umana, di meditazione. Alcuni di quelli sembrano quasi non tenere in conto Dio. Che ci fanno nella Bibbia? Chi ha deciso di inserirli e di tenerli, in realtà, faceva già solo con questa scelta un’affermazione teologica. Sosteneva che il pensiero umano, la meditazione di tante persone normali, la saggezza mondana, non sono qualcosa di insignificante o superficiale, ma portano sulla strada di Dio, sono importanti anche a livello religioso. È una convinzione interessante, perché esclude qualunque forma di integralismo che continua spesso a condizionarci non solo in ambito religioso: è una tentazione umana, infatti, quella di pensare che solo “i nostri” abbiano capito le cose, che non ci sia da imparare nulla dagli altri. Un discorso religioso, poi, potrebbe facilmente immaginare che tutto ciò che viene dall’essere umano sia insignificante o pericoloso. Non è così nel mondo ebraico, che ritiene invece che l’intelligenza umana, creata da Dio, sia in grado di cogliere tante cose di Dio. È vero che Dio entra nella storia e sapere che cosa ha fatto e scelto ci aiuta a conoscere più facilmente e rapidamente quello che lui pensa, ma già solo guardando un mondo che da Lui viene dovrebbe essere possibile capire che tipo di desideri e pensieri Dio possa avere. È un’intuizione molto dialogica che parte dalla creazione dell’uomo «a immagine e secondo la somiglianza» divina (Gen 1,26), per cui l’uomo, a partire da sé, può già sintonizzarsi con Dio. E questa sua intuizione non è necessariamente sbagliata o inutile. La ricaduta è che quando l’uomo prova a pensare alla propria vita, alle norme di saggezza con cui viverla meglio, già si muove verso Dio, in qualche modo medita su di lui. La presenza stessa del genere sapienziale nel Primo Testamento dice una profonda e seria valorizzazione della ricerca umana. Immagini da Wikimedia La “Sapienza di Salomone” Un libro in particolare riprende la parola, “sapienza”, e si immagina che sia stato scritto da Salomone. Ciò è impossibile, ma l’antichità è abituata ad attribuire dei libri ad autori inventati, per garantire l’anonimato degli autori veri, in segno di umiltà e per dare lustro all’opera. In realtà deve trattarsi di un’opera della prima metà del i secolo a.C., scritta in un bel greco da parte di chi di certo è abituato a pensare “alla greca”. Il tentativo è di offrire una meditazione che potremmo quasi chiamare filosofica, facendo notare che si accosta perfettamente alla tradizione ebraica. E, dall’altra