Il mondo biblico è solitamente abbastanza diffidente nei confronti del potere. È vero, l’immagine della presenza definitiva di Dio nella storia è legata a Davide (dapprima come re ideale, poi come modello del re messianico), ma in fondo anche la monarchia viene narrata non come una scelta di Dio, ma come una richiesta del popolo a cui il Signore, un po’ controvoglia, acconsente.
E dai poteri internazionali Israele è stato minacciato, distrutto e deportato, perseguitato… tanto che nell’Apocalisse si sostiene che ogni forma di potere viene dal male, che a volte prende le forme di Dio ma è sempre completamente negativo.
C’è però, insieme a tanti altri, un brano che si presta a essere riletto con più calma, tanto più che di solito non abbiamo il tempo di soffermarci a considerarlo, perché spesso lo ascoltiamo nel lungo racconto della passione di Luca. Lo troviamo all’inizio del capitolo 23 di Luca.
Perché solo in un vangelo?
Sto parlando del curioso intreccio per cui Pilato, dopo il primo interrogatorio di Gesù, decide di inviarlo da Erode, che si trovava a Gerusalemme per la Pasqua.
La prima curiosità con cui possiamo decidere di fare i conti è che questo brano compare solo nel vangelo secondo Luca. Perché alcuni episodi sono riportati da tutti i vangeli (in realtà praticamente solo la passione, e non in tutti i particolari, appunto), altri dai tre “sinottici” (e sono la maggior parte: stiamo riferendoci a Matteo, Marco e Luca), altri da due o da uno solo?
In buona parte non lo sappiamo. È abbastanza chiaro che Matteo e Luca, mentre scrivevano i loro vangeli, avevano davanti il testo di Marco e con tutta probabilità un altro scritto che a noi non è arrivato. In parte, però, hanno anche fonti proprie, esclusive, o almeno scelgono di riportare ciò che per gli altri non è altrettanto interessante. È infatti altrettanto probabile che i materiali a disposizione dei quattro evangelisti fossero molto più ampi di quelli che effettivamente entrano poi a far parte del loro testo. Giovanni lo dice anche esplicitamente, con una certa esagerazione: «Se si scrivessero una per una tutte le cose dette e fatte da Gesù, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25), ma questi segni «sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo e perché, credendo, abbiate la vita» (Gv 20,31).
L’obiettivo ultimo della stesura dei vangeli è quindi non tanto la conoscenza di particolari sulla vita di Gesù, ma la fede in lui. Nello scegliere i brani da inserire, però, di certo influiscono anche interessi e sensibilità degli autori.
Luca, ad esempio, si svela anche negli Atti degli Apostoli un autore attento al mondo politico e sociale che lo circonda. E infatti ciò che ci dice su un passaggio del processo a Gesù che riferisce solo lui è estremamente verosimile e interessante.
La situazione dell'impero
Tutti noi sappiamo che al tempo di Gesù in Israele dominava l’impero romano.
In realtà questa affermazione è un po’ troppo generica e imprecisa. Noi, infatti, siamo inevitabilmente portati a pensare all’impero romano sul modello degli imperi seicenteschi e settecenteschi, come a un potere estremamente accentratore che ha tutto sotto controllo in un modo molto omogeneo.
L’impero romano non era così. Quando si affacciava in un’area nuova, spesso selezionava alcuni centri, non necessariamente i più grandi, ma che si erano affidati a lui o sembravano in qualche modo più affidabili, e questi venivano caricati di maggiore potere e importanza. Altrove si consentiva magari che mantenessero i propri tribunali, o una propria gestione delle tasse, o un’amministrazione in parte autonoma. Il principio era quello del “dividi e comanda”. Se per caso in quella regione si fosse pensato a una rivolta contro Roma, le speranze di successo non avrebbero potuto che derivare dalla compattezza contro un nemico molto forte. Ma, in caso di rivolta, qualcuno avrebbe avuto da perderci più di altri, e di sicuro avrebbe fatto la spia. È un sistema che i romani applicavano in modo generalizzato e con molta astuzia, e che infatti si svelò molto utile ed efficace.
Agli amministratori locali l’impero chiedeva sostanzialmente tre cose. La più importante era che garantissero l’ordine pubblico. Se c’era questo, su tutto il resto si poteva discutere. Poi, chiedevano tasse. Infine, e solo se sentivano di potersi fidare, soldati. Ma se trovavano un potere locale che garantiva l’ordine pubblico, normalmente lo lasciavano stare, si assicuravano che non prendesse iniziative di politica estera in contrasto con Roma, e su tutto il resto scendevano volentieri a patti.
Nell’area di Israele i romani avevano visto l’ascesa di Erode il Grande, personaggio spietato anche con i suoi stessi figli ma che governava con sicurezza i propri territori, e gli avevano concesso una notevole autonomia, stimandone il polso con cui governava, senza mai mettersi contro Roma. Alla sua morte, dapprima i romani rispettano il testamento di Erode, che divide gran parte del suo territorio tra i suoi tre figli più grandi superstiti, più altri pezzi più piccoli in varie donazioni.

Galilea e Gerusalemme
La parte più prestigiosa, che comprende Gerusalemme, viene affidata ad Archelao, che però non convincerà i romani, che dieci anni dopo lo depongono e si occupano direttamente della Giudea e Samaria. In realtà applicano anche lì la solita tattica di delega sotto minaccia. Concedono al sinedrio l’amministrazione ordinaria dell’area, fatte salve le condanne a morte che restano di responsabilità romana e gran parte delle tasse; se però qualcosa non fosse andato bene, se ci fossero stati disordini, il sinedrio sarebbe stato ritenuto responsabile (ecco perché tanta ansia anche nei confronti di movimenti non politici come quello di Gesù). I romani mantenevano comunque due coorti in zona, come sorveglianza armata, e un prefetto che rappresenta l’autorità romana. Certo, si trattava di una zona piccola, povera, senza un potere pieno e lontana da Roma; non un posto appetibile per chi puntava alla carriera, e infatti vengono mandati a Gerusalemme prefetti o senza particolari capacità e ambizioni o in castigo. Dal 26 al 36 d.C. vi viene nominato Ponzio Pilato, ritenuto dagli storici romani inaffidabile, corrompibile e non particolarmente acuto.
In Galilea, invece, nella zona in cui cresce Gesù, resta “tetrarca” (un modo per non chiamarlo “re”) Erode Antipa, che i vangeli chiamano “tetrarca Erode” o semplicemente “Erode”, che verrà deposto solo nel 39. Era un sovrano non senza difetti e ambiguità, perché è lui ad aver fatto uccidere Giovanni Battista, e la Erodiade sua moglie che gliene chiede la testa era già stata moglie di suo fratello, da Antipa rapita mentre anche lui era già legato in un altro matrimonio. Ma era anche stato capace di presentarsi come rappresentante fedele del mondo ebraico, un buon ebreo che andava in pellegrinaggio al tempio e rispettava la legge mosaica (matrimoni a parte…).
Luca ci dice che i due, Pilato e Antipa, «erano in inimicizia tra di loro». Non è difficile da capire: l’uno era un soldato, veniva dalla carriera militare, rappresentava il potere mondiale indiscusso ma personalmente non era un nobile. L’altro si vantava di essere di famiglia regale e di essere ebreo (anche se la sua famiglia era di origine idumea…), era sostanzialmente ben visto dal popolo, a differenza del prefetto romano, ma sapeva che il suo potere dipendeva sempre dall’approvazione romana. Non potevano che trovarsi antipatici.
Eppure c’è qualcosa che li rappacifica…
Uno strano galileo
La festa di Pasqua attirava a Gerusalemme maree di pellegrini. In più, era la festa che celebrava la liberazione da un potere straniero… Normalmente il prefetto romano non risiedeva a Gerusalemme, ma durante la festa saliva nella città santa con qualche centinaio di soldati, per sicurezza…
Veniamo a sapere dai vangeli che gli portano un galileo che fa discorsi strani nel tempio. Appare chiaro, da tutti i vangeli, che per Pilato Gesù non costituisce un rischio politico, quindi vorrebbe lasciarlo andare. Però il sinedrio gli chiede di condannarlo a morte. Da una parte è il sinedrio ad avere la responsabilità dell’ordine pubblico; dall’altra, a Pilato non dispiace probabilmente far sentire che è lui a comandare; insieme, però, se capitasse qualche incidente intorno a uno che il sinedrio aveva già segnalato… a rischiare il posto e qualcosa di più sarebbe stato Pilato, che già a Roma non godeva di buona fama.
Secondo Luca, è qui che il prefetto romano ha l’idea di mandare Gesù da Erode: è un cittadino galileo, e si parla di questioni ebraiche, che Antipa conosce bene. Secondo Luca, Erode lo interroga, lo schernisce e lo rimanda poi da Pilato vestito da re.
Che cosa significa? Da parte di Pilato l’intenzione era di togliersi da davanti una patata bollente. Ma mandandolo da Antipa riconosce a quest’ultimo autorità, lo ammette come capace di gestire una questione politica, gli concede spazio. E il tetrarca, per parte sua, restituisce il prigioniero al prefetto romano, ammette che deve essere lui a giudicarlo, lo riconosce a sua volta come legittimo gestore dell’ordine pubblico. Entrambi smettono di sentirsi in concorrenza, ammettono l’esistenza legittima dell’altro.
Senso dell'episodio
Ma allora, perché Luca decide di inserire questo brano nel suo vangelo? A che cosa doveva servire?
È probabile che l’evangelista avesse davanti due obiettivi: da una parte, il Gesù della passione del suo vangelo continua a distribuire bontà, misericordia e pace a tutti coloro che incontra: guarisce il servo del sommo sacerdote colpito all’orecchio al Getsemani (Lc 22,51), guarda Pietro quando viene rinnegato e lo spinge a pentirsi (22,61), ha parole di compassione per le donne che piangono per lui (23,29-31), invoca il perdono sui suoi aguzzini (23,34), promette la vita eterna a uno dei crocifissi con lui (23,43). Anche qui, tra Pilato ed Erode, diventa lo strumento per rappacificare due uomini politici che amministrano con violenza la giustizia, ma che comunque fanno pace: anche tra i malvagi, la presenza di Gesù porta amicizia.
Ma probabilmente Luca vuole anche dire altro: il potere, quando si trova davanti alla bontà, la vede anche, la riconosce, ma non è disposto a prenderne le parti, si accorda per eliminarla. Il potere è malvagio, continua a cercare sempre il male. Ed è vero che i discepoli di Gesù si troveranno spesso il potere contro, ma questo è successo anche a Gesù, che ne è uscito comunque come il misericordioso che è stato capace di perdonare tutti e fino in fondo.
Angelo Fracchia