Paolo, teologo della fiducia in Dio

La più importante trattazione sul battesimo che troviamo nel Nuovo Testamento si trova nel capitolo 6 della lettera di Paolo ai Romani. È quasi un paradosso, per chi aveva affermato di «non essere stato mandato a battezzare» (1 Cor 1,17). Ma è più ovvio se ci ricordiamo che l’approccio di Paolo è sempre da teologo più che da pastore, da chi cerca di ragionare sulle cose e strutturarle in modo preciso ed equilibrato, più che da chi deve spiegare e risolvere problemi più pratici. Ed è interessante anche perché quando arriva a parlare del battesimo, Paolo in realtà sta affrontando un altro tema.

Lo sfondo

Tutti noi probabilmente sappiamo che la lettera ai Romani è la grande opera di Paolo, quella da lui più ponderata e meditata. Può essere che ci sia un po’ meno chiaro il motivo.

Paolo era stato contestato da alcuni cristiani, provenienti dall’ebraismo, che sostenevano che per essere pienamente cristiani occorresse diventare prima ebrei, facendosi circoncidere e rispettando la legge di Mosè. La reazione di Paolo è feroce (Gal 2,11-14; 5,12), perché coglie che in Gesù Dio offre la propria amicizia, la propria comunione, gratuitamente, e all’uomo è riservata semplicemente la possibilità di accogliere quell’offerta o respingerla; se si chiede di aggiungere una qualunque richiesta a quel dono divino, significherebbe che l’intenzione di Dio, accolta dall’uomo, potrebbe non essere efficace, il che, chiaramente, è assurdo. La predicazione degli avversari di Paolo, però, più semplice e “tradizionale”, aveva fatto presa e probabilmente aveva lasciato Paolo senza una chiesa che lo appoggiasse e sostenesse.

È a questo punto che l’apostolo decide non di arrendersi, ma di rilanciare fortissimo, scrivendo alla chiesa di Roma, che non aveva fondato lui e dove l’elemento ebraico era forte, e che probabilmente aveva sentito parlare di lui in termini problematici, per chiederle il sostegno per una missione in Spagna e, insieme o soprattutto, spiegare le ragioni della propria teologia.

Ne esce un lavoro spettacolare che dimostra, alla maniera rabbinica, che se dovessimo contare su una comunione con Dio costruita dalle nostre opere buone, saremmo perduti, perché nessuno sarebbe sufficientemente perfetto, mentre in Gesù quella comunione ci viene regalata gratuitamente, e tutto ciò che dobbiamo fare è accoglierla. È il grande messaggio paolino, peraltro molto coerente con tanti testi dell’Antico Testamento, che Dio pensi non come un giudice rigido, ma come un innamorato.

Il punto d’arrivo di questa impostazione non può che essere che da parte di Dio non ci sono richieste all’essere umano, se non quella di restare aperti alla relazione con lui. E allora tutta la morale e il rispetto delle leggi religiose? Ci potranno servire ad avere un’indicazione su come vivere bene, secondo Dio, ma non sono quelle che ci rendono amici di Dio. “Tutto è lecito”, come avevano capito anche a Corinto (1 Cor 6,12; 10,23). “Sì, ma non tutto fa bene”, Paolo aveva loro già risposto.

Qui torna sul tema, quasi una conseguenza del suo grande messaggio, chiarendo che il fatto che Dio ci accolga e perdoni gratuitamente non è un’istigazione a vivere nel male.

Immagine - San Paolo -A. del Castillo Saavedra da Picryl

Che cosa c’entra il battesimo?

È qui che Paolo arriva a parlare del battesimo. «Rimaniamo nel peccato perché abbondi la grazia?» (Rom 6,1). La domanda è chiara. Se non importa come ci comportiamo, possiamo fare quello che vogliamo? Da una parte sì, non sarà il nostro comportamento a renderci nemici di Dio. Dall’altra, però, Paolo non può che ribadire che un tale atteggiamento sarebbe «assurdo» (Rom 6,2), perché noi siamo «morti al peccato».

E introduce il discorso sul battesimo, facendo notare che significa il nostro essere simbolicamente morti come Gesù, per risorgere con lui (Rom 6,3).

Questo è il senso del discorso: noi cogliamo nella vita di Gesù un modello fondamentale, addirittura definitivo, per vivere una vita sensata e buona. Non è semplicemente il suo insegnamento, ma il suo esempio di vita (come dice anche 1 Pt 1,21). Ma come potremmo immaginare di vivere secondo il modello dell’uomo-Dio Gesù, noi che siamo così limitati e imperfetti? Dovremmo trovare almeno un punto da cui partire in cui sentirci all’altezza sua, qualcosa in cui poterci dire come lui.

Questo punto esiste, ed è esattamente ciò che rende noi esseri umani tutti uguali, ed è la morte o, per dire ancora meglio, la consapevolezza anticipata del nostro essere mortali, che fa sì che proprio nel modo di vivere la morte spesso vediamo al meglio, con più trasparenza, i principi che avevano animato la vita.

Gesù, per quanto Figlio di Dio, è morto come noi (anzi, anche peggio di molti di noi, in quanto si è trattato di morte prematura, violenta e peraltro ingiusta). Nella morte noi ci sappiamo come lui. E se siamo chiamati a morire “come” lui, possiamo anche pensare in qualche modo di vivere come lui, seguendone il modello.

Il battesimo, infatti, non è semplicemente un lavacro di purificazione: il verbo greco da cui deriva la parola significa “affondare, annegare”, e il simbolo che offre era quello di riemergere dalle acque che avrebbero potuto uccidere, come quelle del mar Rosso. Simbolicamente, quindi, moriamo (nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo) per esprimere la nostra intenzione di vivere come Gesù, cosa possibile se pensiamo che, come lui, anche noi moriremo. Non si tratta, ovviamente, di tornare a vivere in Galilea facendo quello che ha fatto lui, ma fare nostro il suo atteggiamento verso la vita.

Le conseguenze

Quale sarà la conseguenza di questa scelta, che è espressa simbolicamente nel rito del battesimo?

Paolo lo chiarisce con insistenza: Gesù è vissuto nella fiducia e nell’ubbidienza verso il Padre, ed è stato risuscitato per quel motivo, non perché fosse figlio di Dio (Eb 5,8). Così anche noi, esprimendo la nostra intenzione e decisione di vivere, come Gesù, nella fiducia e nell’ubbidienza verso il Padre, condivideremo la stessa sorte, che è di vita oltre la morte (Rom 6,5). Siccome però non siamo ancora morti, intanto la conseguenza di questa decisione di vita è di vivere come Gesù, con «un comportamento di vita del tutto nuovo». Questo non perché così, in premio, avremo di nuovo la vita (che è già promessa e garantita dal Padre), ma in coerenza con la nostra intuizione che la vita umana migliore è quella vissuta secondo i criteri di Gesù. Non ci comportiamo bene per ottenere di vivere la vita eterna di Gesù, ma dal momento che sappiamo che la otterremo.

Per questo Paolo può dire, simbolicamente, che sulla croce è stato appeso il nostro “uomo vecchio”, quello legato a passioni disordinate e condannato a decadere e corrompersi, il «corpo del peccato» (6,6), e già è nato l’uomo nuovo, della risurrezione. Come Cristo, risorto, non muore più, perché la morte non ha più potere su di lui (6,9), anche noi siamo ormai lontani dallo stile del peccato, e invitati a vivere come se già fossimo risorti.

Vivere in modo diverso sarebbe come continuare a comportarci da schiavi dopo essere stati liberati (6,12-18). Resi pienamente figli di Dio dal legame a Gesù, siamo chiamati, per semplice coerenza, a vivere da figli di Dio (Ef 5,8).

Angelo Fracchia