La parola “vocazione” ha diversi significati. Qui ci concentriamo sulla vocazione cristiana, ovvero la relazione con Dio, gli altri e il creato.
LE PIETRE DELLA VITA
LE PIETRE DELLA VITA Kybaykita ci insegna cosa è bene fare con le pietre della nostra vita. Ai lati della strada sterrata, che si snoda tra rossi sentieri africani, di tanto in tanto, s’innalza un gigantesco Baobab, che come i campanili o le pagode, le cupole o le torri s’innalza in uno sforzo per raggiungere il cielo. Ma a differenza di chi per innalzarsi deve essere agile, il Baobab è grasso, non slanciato e il suo salire nasce da radici diventate, col passare del tempo, un groviglio di tronchi annodati. Il Baobab dall’alto della sua imponenza ne ha viste tante. È testimone di età antiche, di eroi senza qualità, di vanità, di imprese… È l´albero simbolo delle savane, una poderosa scultura del mondo vegetale. Vive oltre 500 anni. Il suo tronco può raggiungere un diametro di 15 metri e un´altezza di 25: un vero gigante della natura. Nel continente africano il Baobab è il centro gravitazionale della vita sociale dei villaggi: sotto la sua ombra si tengono i mercati, le riunioni degli anziani, le udienze dei giudici, le danze rituali, i giochi dei bimbi. Per le carovane e i viaggiatori rappresenta un fondamentale punto di riferimento per orientarsi, un elemento imprescindibile del paesaggio. Sotto il Baobab gli anziani impartiscono, specialmente ai giovani, preziosi consigli di saggezza e utili regole di educazione pedagogica ed ambientale. Proprio per ascoltare Kibaykita, uno degli anziani più rispettati del villaggio, un giorno sotto il Baobab si radunò un gruppetto di giovani. L’anziano cominciò a narrare e, affinché le sue parole rimanessero impresse nella mente e nel cuore dei suoi ascoltatori, usò anche elementi dell’ambiente che erano parte della vita quotidiana. Prese un barattolo di vetro, di quelli solitamente usati per la conserva di pomodoro e lo poggiò di fronte a sé sulle radici aggrovigliate del Baobab. Chinatosi sotto lo sgabello dov’era seduto, tirò fuori una decina di pietre, di forma irregolare e con attenzione, una alla volta, le infilò nel barattolo. Quando il barattolo fu riempito completamente e nessun’altra pietra poteva essere aggiunta, chiese: “Il barattolo è pieno?”. Tutti risposero di sì. “Davvero?”. Si chinò di nuovo sotto lo sgabello e tirò fuori un secchiello di ghiaia. Versò la ghiaia agitando leggermente il barattolo, di modo che i sassolini scivolassero negli spazi tra le pietre. Chiese di nuovo: “Adesso il barattolo è pieno?”. A questo punto, chi lo ascoltava aveva capito. ”Probabilmente no” rispose uno. “Bene” replicò l’anziano. Si chinò e prese un secchiello di sabbia, la versò nel barattolo, riempiendo tutto lo spazio rimasto libero e, di nuovo chiese: “Il barattolo è pieno?”. “No!” risposero in coro. “Bene!” riprese l’anziano. Tirata fuori una brocca d’acqua, la versò nel barattolo riempiendolo fino all’orlo. A questo punto Kibaykita chiese: “Qual’ è la morale della storia?”. Una mano si levò all’istante: “La morale è, non importa quanto fitta di impegni sia la tua agenda, se lavori sodo ci sarà sempre uno spazio per aggiungere qualcos’altro!”. “No – replicò l’anziano – il punto non è questo. La verità che questa immagine ci insegna è che, se non metti dentro prima le pietre nel barattolo, non riuscirai mai più ad infilarle”. Poi, l’anziano seduto all’ombra del Baobab, continuò rivolgendosi a ciascuno: “Quali sono le “pietre” della tua vita? I tuoi figli, i tuoi cari, il tuo grado di istruzione, i tuoi sogni, una giusta causa. Insegnare o investire nelle vite di altri, fare altre cose che ami, avere tempo per te stesso, la tua salute… Ricorda di mettere queste “pietre” prima, altrimenti non entreranno mai. Se ti esaurisci per le piccole cose (la ghiaia, la sabbia), allora riempirai la tua vita con cose minori, di cui ti preoccuperai, non dando mai veramente spazio e valore alle cose grandi e importanti (le pietre)”. Chiunque voglia riflettere sull’insegnamento del saggio Kibaykita può chiedersi: “Quali sono le ‘pietre’ nella mia vita?” Metti nel barattolo, prima, quelle più importanti.
SERVIRE LA FRATERNITÁ
SERVIRE LA FRATENITÁ La chiamata del dialogo interreligioso Da quando sono atterrata in Mongolia, Paese in cui la Chiesa cattolica è un piccolissimo gregge, la realtà del dialogo interreligioso sta assumendo per me, sempre più concretezza. Con papa Paolo VI e il Concilio Vaticano II il dialogo interreligioso ha ricevuto una forte spinta e ha assunto un posto speciale nel cuore della Chiesa. Ma che cosa è questo dialogo? Dio Trinità è, nella sua identità più profonda, dialogo vivo e vivificante di Amore che nella sua sovrabbondanza si riversa sull’umanità e la coinvolge, così come ci rivela il mistero dell’Incarnazione del Figlio. Per questo possiamo pensare al dialogo come ad una chiamata che deve diventare un atto d’amore al servizio della fraternità. È un’esperienza che va desiderata, cercata, per la quale va creato lo spazio fecondo perché questo incontro possa accadere. Certo il primo contatto con l’altro, diverso da me, spaventa sempre un pò e chiede di affrontare una certa dimensione di rischio. Ci si può chiedere: Come farò? Da dove incomincio? E se non ci capiamo? Dovrò rinunciare alla mia propria identità nel dialogo? Il Dialogo Interreligioso è prezioso e delicato, richiede un atteggiamento di ascolto, di stima e di rispetto, un’apertura a dare e ricevere, in una relazione che coinvolga tutto l’essere della persona. Questo implica coraggio, responsabilità, interdipendenza e umiltà. Nel vero dialogo i due dialoganti crescono insieme, camminano insieme e si arricchiscono venendo rinsaldati nella propria profonda identità, ma allo stesso tempo aprendo il cuore ad una concreta fraternità. Tutto questo con la fiducia che mentre si inizia a camminare, la via appare. Mons. Pietro Rossano diceva che il dialogo non avviene tra le diverse religioni, ma tra persone che professano diverse religioni. Questo ci dà già un’indicazione preziosa: la persona va messa al centro. Passo dopo passo si costruiscono relazioni significative con i membri delle altre religioni in un dialogo di vita, di esperienze spirituali, in uno scambio teologico e in una “complicità nella carità”, perché possano crescere la dignità umana e le ricchezze spirituali e morali delle persone e perché, insieme, si cerchi di promuovere un concreto impegno per la pace, la custodia del creato, la libertà, lo sviluppo dei valori, la cura per i più piccoli. Recentemente ho avuto il dono di prendere parte al Settimo Colloquium Buddista-Cristiano (13-16 novembre), promosso dal Dicastero per il Dialogo interreligioso in collaborazione con la conferenza episcopale thailandese, diverse istituzioni buddiste e l’università buddista Mahachulalongkornrajavidyalaya. L’incontro, tenutosi a Bangkok, aveva come tema Karuṇā e Agape in dialogo per la guarigione di un’umanità e di una terra ferite e ha visto la partecipazione di buddisti e cristiani da Cambogia, Hong Kong, India, Giappone, Malesia, Mongolia, Myanmar, Singapore, Sri Lanka, Corea del Sud, Thailandia, Taiwan, Regno Unito. Sono stati giorni intensi di ascolto, incontro, riflessione e condivisione sull’amore e la compassione come strumenti per guarire l’umanità e la terra ferite. Mi porto dietro la bellezza delle relazioni e dei momenti di condivisione ( anche informali), la profondità delle riflessioni condivise e la speranza che un cammino comune nel bene sia possibile e possa farsi segno luminoso ed eloquente per il nostro mondo segnato dalla violenza e dal rifiuto dell’altro. Come suora missionaria della Consolata in Mongolia mi sono sentita incoraggiata a muovere passi in questa direzione, a muovermi alla ricerca dell’altro, ad appassionarmi a conoscere e studiare le diverse realtà con cui vengo a contatto, sognando il dialogo che diventa mano tesa, concreto bene per tutti, crescendo nell’ascolto del grido dell’umanità e nell’avere un cuore capace di vera fraternità. Sr. Francesca Allasia https://www.youtube.com/watch?v=g3th0jIzay8&t=81s
Dio ascolta gli imperfetti
Dio ascolta gli imperfetti Nel nostro tempo può capitare che ci interroghiamo su come fosse la vita ordinaria, normale, sotto grandi re o imperi. È un’attenzione tutta moderna, che a volte può trovare risposte difficili, proprio perché gli scrittori antichi non erano attenti alla vita quotidiana, quella della gente comune. Con lo stesso spirito, ci piacciono sempre di più libri, film o prodotti teatrali o televisivi che non si limitino a raccontare la storia principale, ma che traccino anche bene i ritratti dei personaggi secondari, che non li riducano a macchiette. Se con questa attenzione andiamo a leggere le opere antiche, restiamo spesso delusi, perché l’attenzione si concentra normalmente solo sulle vicende centrali, e a lato rimangono soltanto schizzi molto veloci. In questo la Bibbia è spesso sorprendente. L’approccio resta quello, e tra l’altro con un’attenzione alla psicologia che normalmente non è moderna, ossia è molto superficiale. Eppure, poi, ci sono numerosi squarci che ci stupiscono, che mostrano di essere attenti e delicati nei confronti degli avversari, o dei personaggi che restano ai margini. Una schiava egiziana Uno di questi personaggi è Agar. Di lei sapremmo, di per sé, solo quello che serve al racconto di Abramo e della sua ricerca di un discendente. Quando infatti Abramo si è già sentito promettere diverse volte un figlio che non arriva, alla moglie Sara viene un’idea, che è quella di usare a quello scopo la propria schiava, che viene, in quel momento, ridotta semplicemente a uno strumento. Di fronte alle ripetute prospettive di un figlio per Abramo, infatti (Gen 12,7; 13,15-16; 15,4-5.18), Sara, sterile (Gen 11,30), trova una via d’uscita nell’offrire al marito la propria schiava, così che concepisse con lei un figlio che poi avrebbe fatto partorire “sulle ginocchia” (come avrebbe fatto più tardi anche Rachele con Bila: Gen 30,3) per offrire al neonato lo statuto di figlio libero e non di schiavo. Come ci aspetteremmo, non ci viene detto nulla sullo stato d’animo di Agar, veniamo solo a sapere che è una schiava egiziana, il che può suonare ancora più avvilente, perché viene da una società ricca, potente e dominante, ma lei è caduta talmente fuori dal proprio mondo da finire schiava di un nomade senza patria né prospettive… Il progetto di Sara sembrerebbe procedere bene, perché Agar resta incinta, ma da questo momento veniamo a sapere che anche la schiava ha un suo carattere e propri sentimenti, seppure negativi e discutibili, in quanto «la sua padrona non contò più niente per lei» (Gen 16,4). È come se questa schiava, tanto insignificante che finora non avevamo sentito parlare di lei, improvvisamente pensi di poter diventare qualcuno, offrendo al marito della sua padrona un figlio. E questo, che può anche essere vissuto (da noi moderni, ma in fondo anche nel mondo religioso del Primo Testamento) come un riscatto, diventa però motivo di vanto, di orgoglio, e Agar passa immediatamente dalla parte del torto. Peraltro, ne paga subito le spese, perché Sara si lamenta con Abramo di questo cambiamento, ottiene la facoltà di (mal)trattarla come vuole, tanto che Agar fugge. La fuga di una schiava, donna, straniera, sola, incinta, in un territorio desertico, è qualcosa di molto vicino a un suicidio, non può avere molte prospettive davanti a sé, il che ci fa intuire a quale livello di maltrattamento aveva dovuto sottostare. Il lamento udito È nel deserto che viene incontrata dall’«angelo del Signore» (Gen 16,7), che dimostra di conoscerla (la chiama per nome, e poi aggiunge il suo essere schiava di Sara) e le chiede che cosa faccia lì, nel deserto, ferma accanto a una sorgente, da sola. Lei spiega la propria fuga, e si sente rispondere di tornare dalla padrona, e di restare a lei sottomessa. Poi, senza ulteriori stimoli, l’angelo prospetta anche ad Agar ciò che era stato promesso ad Abramo, ossia una discendenza innumerevole, che, è vero, vivrà nel deserto e in scontro costante con tutti quelli che la circonderanno, ma vedranno il bambino e la sua discendenza come un «asino selvatico», costretto a una vita precaria ma non addomesticabile, ruvido e intrattabile ma libero. E Agar riconosce l’importanza di questa visione, lascia il nome al pozzo (Gen 16,13-14). È come se la sua vicenda l’avesse resa importante e libera come il suo padrone. O, per meglio dire, non solo o non tanto la sua ribellione, quanto l’incontro con il Signore (rappresentato dall’angelo) che ha visto e ascoltato anche la sua oppressione e tristezza. Un Dio che non la appoggia nella sua rivolta, in quanto la invita a tornare dalla padrona e a restarle sottomessa, ma dimostra di essere attento anche a lei, le promette che le sue lacrime non saranno dimenticate né inutili. Il secondo esilio Ma non basterà neppure quello. Agar, infatti, torna da Abramo e Sara e partorisce ad Abramo un figlio, Ismaele. Poco dopo Dio appare di nuovo ad Abramo e gli rinnova le proprie promesse, alle quali Abramo risponde con un per noi un po’ enigmatico «Viva Ismaele davanti a te» (Gen 17,18), che significa qualcosa del tipo: “Va bene, sono lieto delle benedizioni e promesse che mi rinnovi, di una discendenza innumerevole. Ma, vedi, io sono vecchio e mia moglie pure, e abbiamo pensato di aiutare l’adempimento della tua promessa procurandoci un figlio, che c’è. È figlio mio, come mi avevi promesso, vero che è lui la via tramite cui mi verrà una discendenza?”. Ma Dio rinnega subito questa ipotesi. Come se fosse femminista prima del tempo, pare quasi dire che, se la promessa del figlio era arrivata ad Abramo, sicuramente coinvolgeva, alla pari, anche Sara. Ad avere un figlio sarà Sara, entro un anno (Gen 17,19.21). Ismaele viene benedetto (17,20), ma non è il percorso voluto da Dio. Così, da una parte, la promessa ad Abramo resta rinnovata e precisata. Ma, dall’altra, Agar rimane marginale e dimenticata, potremmo dire. Il progetto divino si compie, Sara concepisce e partorisce Isacco e i due figli di Abramo crescono insieme. Troppo amici, secondo Sara, che si indispettisce del buon rapporto tra di
Cento anni in Etiopia
Vi annuncio una grande gioia, sono trascorsi cento anni da quando le Suore Missionarie della Consolata sono partite per l’ Etiopia il 7 febbraio 1924! Come nacque questa vocazione missionaria nel cuore del Fondatore? Fin dall’inizio del suo sogno missionario, intendeva inviare evangelizzatori presso i popoli del Kaffa (Etiopia) a continuare l’opera del Cappuccino italiano Card. G. Massaia, espulso dal paese nel 1878. Con l’ arrivo delle Pioniere (gruppo fondante) ad Addis Abeba: Suor Virginia Barra, Suor Vittoria Lazzero, Suor Pierina Magistrelli, Suor Carmela Forneris, Suor Tecla Imboldi e Suor Giuditta Baroni ebbe così inizio in questa terra l’avventura missionaria della Consolata al femminile. Con una gioia immensa nel cuore voglio esprimere la mia gratitudine a Dio Padre Onnipotente che ha ispirato questo fuoco al Cardinal Guglielmo Massaia, Cappuccino che ha animato il nostro Padre Fondatore raccontando le sue esperienze missionarie in Etiopia, specificamente in Kaffa; così L’Allamano sognò l’Etiopia come primo orizzonte missionario. Saldo è il mio cuore arrivando al cento anni della presenza, dell’Evangelizzazione, della missione e della consolazione in Etiopia e vedendo che si è realizzato il primo sogno del nostro padre fondatore Giuseppe Allamano! Torniamo indietro un po’ e facciamo memoria, sfogliando i libri di storia: l’ Allamano, dovendo recarsi a Roma per trasmettere la documentazione relativa al processo per la beatificazion del Canonico Cafasso, coglie l’occasione per sondare gli umori di Propaganda Fide nei riguardi dell Istituto, ma considera inopportuno parlare della questione Kaffa al Prefetto card. Gotti «perché – dice – non avevo dati precisi» . Lo scrive al Camisassa che si trova ancora in Kenya e che, insieme al nipote mons. Perlo, sta lavorando al “progetto Kaffa”. L’ Allamano, prudente per natura ed equilibrato nelle sue scelte, frena l’entusiasmo dei due. Se ne riparlerà, dice. Infatti, al suo ritorno, il Camisassa prepara, a nome dell’Allamano, una Relazione sul Kaffa che viene inviata il 16 maggio 1912 a Propaganda Fide con la richiesta di ottenere il benestare della Congregazione. I motivi addotti per indurre Propaganda Fide a fare il passo non sembrerebbero fondarsi su situazioni di fatto, ma su opinioni o previsioni raccolte dai circoli. Si riconosce però alla base di questa richiesta il tacito impegno che l’Allamano aveva preso nella fondazione dell’Istituto di continuare l’opera del Massaja in Etiopia. Nella vita missionaria ci sono sempre sfide, però esse sono occasioni che ci accostano al Signore e ci fanno crescere di più. Le nostre prime Missionarie della Consolata in Etiopia ebbero problemi politici nel Paese e lasciarono l’Etiopia, tuttavia, grazie al buon Dio e a P. Gaudenzio Barlassina, che aveva fondato le Suore Ancelle di Maria Consolata, continuò una presenza che rimase fedele fino al ritorno delle missionarie della Consolata, 22 agosto 1974, in quella terra amata che un tempo veniva chiamata l’Abissinia, ed ora Etiopia. Undici Suore Ancelle della Consolata erano rimaste aspettando il ritorno delle Missionarie più di 30 anni e chiesero di diventare Missionarie della Consolata; nel 1975 davanti alla Superiora generale, Madre Fernanda Del Vecchio, fecero i voti perpetui. Grazie a loro che hanno lasciato acceso il fuoco della missione, che continua oggi a rigenerare la missione ad gentes! Voglio veramente rendere grazie al Signore per il dono di ogni Sorella che ha donato la sua vita per l’evangelizzazione e per il cammino della fede cristiana; in modo particolare vogliamo ricordare sr. Teofana Berbenni, morta di tifo esantematico, di sr. Cirenea Testa, deceduta in seguito a tifo petecchiale, e sr. Eliodora Zottic, ferita tragicamente in un assalto di briganti, con Padre Quinto Gardetto, sulla strada da Nekemte ad Addis Abeba, il primo aprile, 1941. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. (Gv 12,24) Oggi abbiamo Suore Missionarie della Consolata etiopi sparse nel mondo, si vede che il chicco di grano caduto in terra ha dato il suo frutto abbondante, grazie alle prime Missionarie della Consolata che hanno seminato lo spirito missionario e donato la vita. Viva Etiopia! Viva Allamano! Viva la Consolata! Ecco i loro nomi: Sr.Getenesh Wolde Amlak Mandefro (Addis Abeba), Sr. Bachu Gemechu Chewaka (Wollega), Sr. Kibinesh Amanuel Untiso (Hosana), Sr. Teresa Gabriel (Gambo), Sr. Blien Worku Yadesa (Addis Abeba), Sr. Adanech Mitiku Shawo (Kaffa), Sr. Meselech Gizaw Woldemichael (Kaffa), Sr. Soreti Temesgen Abosha (Wollega), Sr. Almaz Tesfaye Arficho (Shishicho), Sr. Birtukan Miju Duchiso (Gedio) Sr. Tsion Kochito Alemu (Kaffa) Suor Almaz, Suor Adanech, Suor Soreti e Suor Tireza, Missionarie della Consolata etiopiche Suor Adanech, MC Vi annuncio una grande gioia, sono trascorsi cento anni da quando le Suore Missionarie della Consolata sono partite per l’ Etiopia il 7 febbraio 1924! Come nacque questa vocazione missionaria nel cuore del Fondatore? Fin dall’inizio del suo sogno missionario, intendeva inviare evangelizzatori presso i popoli del Kaffa (Etiopia) a continuare l’opera del Cappuccino italiano Card. G. Massaia, espulso dal paese nel 1878. Con l’ arrivo delle Pioniere (gruppo fondante) ad Addis Abeba: Suor Virginia Barra, Suor Vittoria Lazzero, Suor Pierina Magistrelli, Suor Carmela Forneris, Suor Tecla Imboldi e Suor Giuditta Baroni ebbe così inizio in questa terra l’avventura missionaria della Consolata al femminile. Con una gioia immensa nel cuore voglio esprimere la mia gratitudine a Dio Padre Onnipotente che ha ispirato questo fuoco al Cardinal Guglielmo Massaia, Cappuccino che ha animato il nostro Padre Fondatore raccontando le sue esperienze missionarie in Etiopia, specificamente in Kaffa; così L’Allamano sognò l’Etiopia come primo orizzonte missionario. Saldo è il mio cuore arrivando al cento anni della presenza, dell’Evangelizzazione, della missione e della consolazione in Etiopia e vedendo che si è realizzato il primo sogno del nostro padre fondatore Giuseppe Allamano! Torniamo indietro un po’ e facciamo memoria, sfogliando i libri di storia: l’ Allamano, dovendo recarsi a Roma per trasmettere la documentazione relativa al processo per la beatificazion del Canonico Cafasso, coglie l’occasione per sondare gli umori di Propaganda Fide nei riguardi dell Istituto, ma considera inopportuno parlare della questione Kaffa al Prefetto card. Gotti «perché – dice – non avevo dati precisi» . Lo scrive al Camisassa che si trova ancora in Kenya e che, insieme al nipote mons. Perlo, sta lavorando al “progetto Kaffa”. L’ Allamano, prudente per natura ed equilibrato nelle sue scelte, frena l’entusiasmo dei due. Se ne riparlerà, dice. Infatti, al suo ritorno, il Camisassa prepara, a nome dell’Allamano, una Relazione sul Kaffa che viene inviata il 16 maggio 1912 a